Kirill Serebrennikov mette in scena “La scomparsa di Josef Mengele” di Olivier Guez, romanzo vincitore del Prix Renaudot 2017, costruito come un’inchiesta che cammina con il passo della narrativa — un libro inquietante, dove il male smette di apparire come eccezione e comincia a somigliare a un’abitudine.
Un film che parte dal “dopo” e lo tratta come un presente
Dopo la Seconda guerra mondiale, Mengele fugge in Sud America e attraversa Buenos Aires, Paraguay e Brasile, organizzando metodicamente la propria sparizione per sottrarsi a un processo. Così facendo sposta subito il discorso dal singolo individuo al sistema che lo tiene in piedi.
In questo senso, il titolo diventa un paradosso produttivo: scompare un uomo, resta un’ombra che continua a chiedere energia a chi la protegge e a chi la subisce. La clandestinità smette di essere un’avventura e diventa una forma di vita; e la vita, quando si ostina a continuare dopo il crimine, costringe lo spettatore a una domanda scomoda: che cosa serve davvero per rendere possibile l’impunità?
Dal romanzo di Olivier Guez al cinema
Il libro di Guez ha una scelta di metodo che ha pesato molto anche nella sua ricezione. Racconta la latitanza come una biografia capovolta, dove invece dell’ascesa si vede una degradazione che non coincide con espiazione. Il romanzo, premiato dal Renaudot, lavora con precisione documentaria, e insieme con un’idea narrativa forte: seguire il carnefice nel tempo morto della fuga, quando l’ideologia resta intatta ma il corpo invecchia, si ammala, si irrigidisce.
Questa impostazione, al cinema, diventa un problema di messa a fuoco. Ogni film su un criminale storico rischia una trappola: trasformare il ricercato nel centro magnetico del racconto.
Serebrennikov, almeno nelle intenzioni di progetto, prova a spostare continuamente il baricentro. Mengele resta in quadro, ma la storia insiste sulle condizioni che lo rendono invisibile. La latitanza, qui, non sembra un buco nero “personale”, ma assomiglia a un corridoio costruito da altri.
Serebrennikov e la grammatica dell’ombra
Serebrennikov arriva a questa materia con un bagaglio coerente. Il suo cinema ha spesso interrogato corpi, poteri, società che regolano la vita con strumenti espliciti e impliciti. Per questo la clandestinità di Mengele non è soltanto un tema “storico”, bensì un laboratorio sul controllo, sull’adattamento, sul modo in cui un individuo si muove quando il mondo chiede che sparisca pur continuando a vivere.
Non a caso il film è passato da Cannes, nella sezione Cannes Première, collocazione che in genere segnala un’ambizione autoriale e una volontà di entrare subito nel dibattito.
È una cornice che conta, perché parla del tipo di oggetto che abbiamo davanti: un film che chiede attenzione e che, per sua natura, si misura con l’etica dello sguardo prima ancora che con l’efficacia della trama.
August Diehl, un’interpretazione che lavora di nervi
Un criminale storico, al cinema, vive sempre su un crinale. Serve precisione, serve rigore, serve sottrazione. Un’espressività troppo “costruita” produce distanza; una resa troppo seduttiva produce disagio per ragioni sbagliate.
Diehl ha un volto che può diventare spigoloso, perfino sgradevole, senza bisogno di caricarlo di segni esterni; e questo, in un film del genere, conta più di qualunque trasformazione cosmetica.
La scheda Unifrance offre anche un dato utile a immaginare l’impianto complessivo. “La scomparsa di Josef Mengele” è un film in bianco e nero, dura 2 ore e 16 minuti, ed è distribuito in Francia da BAC Films.
Il bianco e nero, qui, può essere una scelta di distanza e di materia. Togliere colore significa togliere conforto, togliere naturalismo turistico, togliere l’illusione della ricostruzione “pittoresca”. Rimane un mondo più duro, più grafico, più esposto, fatto d’immersione e coinvolgimento con il passato.
La latitanza come infrastruttura
Il punto più interessante di una storia simile sta nella domanda che porta con sé. Come si può sparire per decenni, attraversare Paesi, cambiare nomi, trovare denaro e protezione, mantenere contatti? La risposta raramente coincide con l’abilità del singolo. Coincide con un’architettura di complicità, convenienze, silenzi. La fuga diventa un privilegio storico, una possibilità riservata a chi trova mani disposte ad accompagnarlo.
Ed è qui che il film può diventare “necessario” nel senso più concreto del termine, senza bisogno di slogan. Raccontare la latitanza significa raccontare chi tiene aperta la porta, chi offre un letto, chi fa finta di non vedere, chi considera la memoria un fastidio amministrativo. Significa mostrare come la rimozione diventi politica pratica, non psicologia astratta.
Per questo “La scomparsa di Josef Mengele” si presta a essere letto come un film sul presente, anche se parla di un passato circoscritto. Ogni epoca ha i suoi fantasmi protetti da routine sociali. Ogni epoca ha i suoi “dopo” in cui la violenza prova a normalizzarsi.
Filmare un criminale senza trasformarlo in mito
Qui sta la partita di regia. Un film su Mengele rischia due estremi: da una parte la caricatura del mostro, che consola lo spettatore perché rende il male “altro” e facilmente separabile dal mondo; dall’altra la fascinazione, che trasforma la latitanza in romanzo d’avventura.
La strada più interessante è quella di mezzo, più faticosa. Restituire l’orrore senza spettacolarizzarlo, mostrare l’uomo senza umanizzarlo nel senso consolatorio.
In questa prospettiva, la clandestinità diventa una gabbia che non assolve. Il tempo che passa può ridurre un uomo, renderlo paranoico, rancoroso, ossessivo. Ma la degradazione fisica non è giustizia. La giustizia, qui, è un’assenza che pesa. E il film, se funziona, fa sentire proprio questo: la distanza tra conseguenza biologica e conseguenza morale.
Uscite, circuito e arrivo in Italia
Sul piano industriale e distributivo, i dati disponibili aiutano a inquadrare l’uscita come evento culturale, non come semplice “titolo di stagione”. In Francia l’uscita è indicata per il 22 ottobre 2025.
In Italia l’arrivo in sala è segnalato per il 29 gennaio 2026, con distribuzione Europictures.
Questo intervallo dice qualcosa anche del percorso del film. Festival, uscita nazionale, circolazione internazionale. Un oggetto del genere vive di discussione, di critica, di contesto. Chiede allo spettatore un passo diverso rispetto al consumo rapido. E chiede, soprattutto, di restare dentro la domanda che mette in scena.
Un’idea che resta addosso: la memoria come lavoro
La parte più disturbante della “sparizione” non sta nel trucco dell’identità falsa. Sta nel fatto che, per sparire davvero, serve un mondo pronto a farti posto nell’ombra. Serve una società capace di archiviare, minimizzare, voltare pagina senza leggere le righe. In questo senso, il film parla di memoria come lavoro, non come celebrazione.
Ricordare, qui, significa ricostruire i passaggi, nominare le complicità, tenere aperto il dossier anche quando la cronaca chiede altro. Significa capire che la latitanza non è un buco nella Storia. È una stanza piena di persone che hanno scelto di chiudere la porta.
Se “La scomparsa di Josef Mengele” riuscirà fino in fondo, lo diranno le reazioni e il tempo. Ma la sua promessa è già riconoscibile. Guardare la latitanza del male senza abbellimenti, senza aura, senza scorciatoie emotive. Raccontare il dopo come una parte della colpa. E lasciare lo spettatore con una consapevolezza più esigente: la sparizione, quasi sempre, è un fatto collettivo.
