Uno dei nomi più amati della letteratura femminile contemporanea è sicuramente quello di Amélie Nothomb, scrittrice dalla penna affilata e l’animo profondo, che appassiona con i suoi libri brevi e controversi, dal taglio autobiografico e i dialoghi incalzanti; tra i tanti, citiamo “La metafisica dei tubi”, edito in Italia per Voland e uscito in francese nel 2000.
Un’autobiografia metafisica
Il testo è uno di quei libri forse più pregni dello stile personalissimo dell’autrice, un’“autobiografia metafisica” che parla dei suoi primissimi anni di vita, oscillando tra autofiction e slipstream. Il Giappone, le metafore, i capricci e le prese di posizione: una mente “divina” che tanto più viveva quanto più imparava. Prodigiosamente consapevole, dopo un’immobilità quasi vegetale.
Il lungometraggio
Nel 2025 quella piccola meraviglia letteraria è diventata un lungometraggio animato: “Amélie et la Métaphysique des tubes” — un film animato distribuito nei Paesi anglofoni come “Little Amélie or the Character of Rain”, presto al cinema in Italia come “La piccola Amélie” — firmato da Maïlys Vallade e Liane-Cho Han.
Il film è stato selezionato a Cannes nelle Séances Spéciales, come opera prima, e poco dopo ha vinto il Premio del Pubblico al festival di Annecy, la capitale mondiale dell’animazione. Due tappe che spiegano bene il magnetismo dell’operazione: un racconto intimissimo trasformato in un’esperienza visiva ampia, contemplativa, piena di colori che sembrano suonare.
Un’infanzia che diventa “metafisica dei tubi”
Trama minima, densità massima
Nothomb ambienta la storia tra la fine degli anni Sessanta e i primissimi Settanta, quando il padre diplomatico è in servizio nel Kansai giapponese. L’io narrante coincide (quasi) con la neonata Amélie: prima è un “tubo”, cioè un organismo attraversato dai flussi — latte, sonno, evacuazione — che non ha sesso, di cui poco si sa e poco importa al lettore; poi è un dio che osserva il creato; infine una bambina che impara le frasi e la perdita dal mondo circostante.
La scrittura, secca e musicale, mescola fiaba, paradosso e filosofia da tappeto-gioco: una combinazione che i lettori anglofoni hanno conosciuto come “The Character of Rain” e che la critica britannica definì, a suo tempo, “una piccola epifania sulle origini della coscienza”.
La metafora del “tubo”
Il tubo non è solo un’immagine teneramente materiale; è una teoria del corpo e del mondo. Il neonato-tubo riceve e lascia passare: è attraversato, non controlla e si affida. In quell’inerzia c’è un paradiso pre-verbale: l’assenza di scelte, di doveri, di “io”.
Quando il tubo si incrina e la bambina “entra nel linguaggio”, subentra il tempo con i suoi prima e dopo, le cause e gli effetti, il peso della memoria. In altre parole: la meccanica diventa metafisica – e viceversa.
La pioggia come origine
Piove spesso nel libro. Non solo fuori, anche dentro. L’acqua è memoria e smemoratezza: cade e cancella, ma allo stesso tempo riconnette tutto a un ciclo. Non è un caso che la versione inglese insista sul “carattere della pioggia”: un modo per dire che l’elemento liquido ha un’etica sua, una grammatica che precede la grammatica delle frasi.
La scena dello stagno di carpe
C’è un momento, celebre tra i lettori di Nothomb: la bambina e lo stagno di carpe koi. L’acqua attrae e spaventa, il corpo si inclina, la possibilità dell’annegamento appare come un varco: la linea finissima fra il ritorno al “tubo” senza dolore e il salto nel mondo del linguaggio. È una soglia che il libro affronta con crudeltà limpida, senza calligrafie sentimentali.
Dal testo allo schermo: cosa cambia, cosa resta
L’adattamento
Il film di Vallade e Han non traduce soltanto: trasfigura. La voce narrante resta centrale, ma ciò che sulla pagina era un monologo mentale qui diventa coreografia di colori. La scelta più netta è il punto di vista: lo sguardo rimane all’altezza della piccola Amélie.
Gli adulti — i genitori belgi, le tate giapponesi Nishio-san e Kashima-san, due facce della stessa moneta — appaiono come figure interpretate prima con la pelle delle emozioni che con la psicologia.
Le loro presenze tattili (un tessuto, una mano, il vapore di una cucina) costruiscono il senso più di qualsiasi spiegazione. La critica parigina ha notato che il film è “un inno quieto all’empatia infantile” e al modo in cui l’infanzia “deforma e santifica” la realtà.
Il quadro storico e geografico
L’azione è situata nel Giappone del 1969, nella regione del Kansai, tra case borghesi, parchi, stazioni della metropolitana. Non c’è didascalismo etnografico: la città non è “il Giappone”, è quella città come la vede un corpo alto novanta centimetri. In questo senso l’adattamento è fedele allo spirito del libro (che rifiuta i tour da guida Michelin) e insieme lo amplia, facendo del paesaggio urbano un palcoscenico sensoriale.
Struttura narrativa
Il film compatta il racconto su episodi che funzionano come “stanze” emotive: il gioco con la pioggia, la cucina, lo stagno, le passeggiate con Nishio-san. Rispetto al libro, si avverte una selezione: meno digressioni teoriche, più respiro contemplativo. La distinzione non è un difetto ma una postura: il cinema chiede immagini che durino nel tempo di un respiro, non nella logica di un aforisma. Lo ha scritto bene Screen International, per cui Little Amélie “è, in fondo, un film ottimista sul potere della memoria contro la perdita”.
Le immagini: una pittura animata che sa di infanzia
Palette, linee, luce
Le immagini fuggono il kawaii di maniera e puntano a una “ligne claire radieuse”: campiture tenere e nette, disegno pulito, ombre quasi acquerellate. Le Monde ha evocato persino i quadri su iPad di David Hockney per descrivere quell’effetto di luminosità antinebbia che attraversa tutto il film. È una scelta estetica coerente con la voce del libro: la chiarezza come stile morale, il rifiuto dello zucchero come anestetico.
Movimento e quiete
Non c’è frenesia. Il movimento è dosato, quasi respirato: quando la piccola Amélie corre, la macchina-disegno non insegue, accompagna. È così che la pioggia diventa davvero protagonista: non come effetto meteorologico, ma come ritmo che governa lo sguardo. Una pioggia che, a tratti, sembra suonare: la colonna sonora la intercetta, la dilata, le lascia spazio.
Il suono: una culla senza infantilismi
La musica non infantilizza, non chiede tenerezza: mette in ascolto. In più di un passaggio la voce fuori campo (nella versione originale francese) tiene il filo con delicatezza quasi iper-letteraria: non un commento, ma una partitura. L’Independent ha parlato di un film “delicatamente trascendente”, una specie di ninnananna visiva capace di non perdere mai il rispetto per l’intelligenza dello spettatore bambino – e di quello adulto che ricorda.
Le differenze sostanziali tra libro e film
Filosofia ed esperienza
Il libro è esplicitamente metafisico: formula ipotesi, cerca definizioni, scompone il rapporto tra io e mondo. Il film traduce la filosofia in esperienza: il “dio” neonatale, per esempio, non viene teorizzato, ma sentito nella postura della bambina, nel suo modo di occupare lo spazio, nella fiducia assoluta con cui guarda le cose. È la stessa idea – ma passa dal cervello alle mani.
Ironia e mordente
Nothomb è spietata e irresistibile: la sua ironia non è mai decorativa, ha zanne. Il film ne conserva il sorriso sghembo, ma smussa le punte più taglienti: non perché tema la crudezza, bensì per fedeltà all’età della protagonista. Dove la pagina si concede digressioni satiriche, lo schermo preferisce figurazioni poetiche. Lo nota Le Monde quando insiste sulla “dolcezza” come valore strutturale dell’animazione.
Lingua e silenzio
Nel libro la lingua è tema e trama: i primi vocaboli sono soglie, cadute, ferite. Il film, che non può fermarsi a illustrarne la genealogia, lavora sui silenzî: pause, sospensioni, campi vuoti, respiri. È una strategia intelligente: restituisce la fatica del senso senza far predicare la voce narrante.
L’episodio dello stagno
Sulla pagina è un punto di non ritorno, quasi un mito personale. Al cinema diventa il nodo emotivo del film: qui gli sfondi si fanno profondi, la palette vira, l’acqua è vicino di casa ma anche abisso. La scelta di tenere la macchina all’altezza dello sguardo della bambina rende l’angoscia concreta: non si “vede” la paura, la si prova, con un’arte del fuori-campo che obbliga il corpo dello spettatore a contrarsi. Le Monde parla di una sequenza “radiosa e terrificante”, capace di generare stupore senza compiacimento.
Il contesto familiare
La Nothomb di carta lavora di ritratto: i genitori, le tate, i personaggi giapponesi sono micro-figure scolpite con aforismi e frecce sottili. Il film sceglie una via sensoriale: più che caratteri, sono presenze. Il rapporto con Nishio-san, in particolare, guadagna una tenerezza tangibile, “una radiosità che il film si prende il tempo di mostrare”, ha scritto una recensione statunitense, sottolineando come la relazione bambina-tata sia il vero baricentro affettivo della storia.
Il viaggio festivaliero e le firme dietro al progetto
Presentato a Cannes 2025, “Amélie et la Métaphysique des tubes” ha segnalato la vitalità dell’animazione d’autore francese in un’annata in cui il festival ha moltiplicato i territori visivi. Poco dopo, ad Annecy, la risposta del pubblico è stata travolgente: Premio del Pubblico e una scia di proiezioni con sale emozionate.
Dietro al film ci sono case come Ikki Films e Maybe Movies (con partner internazionali come Puffin Pictures), una filiera produttiva che in questi anni ha scommesso su un’animazione capace di occupare lo spazio del cinema d’autore senza rinunciare all’accessibilità. La scheda tecnica diffusa dagli enti di promozione francesi racconta una lavorazione lunga, costruita per “strati”, in cui il disegno 2D dialoga con elaborazioni digitali leggere: tutto al servizio della presenza luminosa della bambina.
Come sono “queste” animazioni
Un’estetica del tatto
Nessuna tridimensionalità invadente, nessuna corsa a impressionare: il film persegue una tattilità bidimensionale. Le superfici hanno una grana lieve – carta, pigmento, grafite. I contorni sono netti ma non duri, le ombre evitano l’effetto realistico e cercano quello mnemonico: ciò che vediamo non è “com’è”, è come resta nella memoria di una bambina.
Spazio e profondità
La profondità non dipende da trucchi prospettici ma da piani cromatici: fondi larghi, figure senza contorno quando la coscienza si allarga, ritagli più marcati quando la paura stringe. È un modo classico di far lavorare l’animazione come pensiero: non illustrare la realtà, ma pensarla in immagini.
Tempo e montaggio
Il montaggio è spesso sincronico con le percezioni: più che guidare, asseconda. Quando la narrazione accelera (il temporale, la corsa, lo smarrimento), l’animazione non impazzisce: sposta il ritmo con dilatazioni improvvise, poi stringe in pochi secondi. È un modo per mantenere “la proporzione bambina” – le ore infinite delle attese, i minuti che esplodono quando si ha paura.
Cosa dice la critica
Il quotidiano Le Monde ha celebrato la grazia del film, sottolineando la sua “ligne claire radieuse” e il modo in cui trasforma lo sguardo infantile in un principio di regia: la macchina non domina; accompagna; lascia che il colore e la luce siano racconto.
L’Independent ha definito Little Amélie “delicatamente trascendente”, rimarcando come l’opera eviti l’ovvio “televisivo per bambini” per scegliere il territorio, più raro, della contemplazione. È un cinema che si fida del silenzio, scrive il giornale, e che invita lo spettatore adulto a ricordare più che a capire.
Per Screen International, il film è “in definitiva ottimista”, un racconto sulla memoria che “sconfigge la perdita”, e che trova la sua forza nel non avere paura della semplicità.
Infine, il passaggio ad Annecy ha certificato il legame con il pubblico: il Premio del Pubblico non è solo una targa, è la prova che un film così intimo può essere popolare senza tradire se stesso.
