30“La giuria” (titolo originale “Runaway Jury”) è un legal thriller del 2003, diretto da Gary Fleder, che rompe il cliché della giuria come luogo sacro, rendendolo un dispositivo fragile, continuamente esposto al potere dei soldi e delle lobby.
A incarnare questa tensione arrivano quattro volti che basterebbero da soli a riempire un manifesto: Gene Hackman, Dustin Hoffman, John Cusack e Rachel Weisz.
Tratto dal libro omonimo di Grisham, il film è un’opera doppia: oggi li ripercorreremo entrambi, chiedendoci se davvero la giustizia sia davvero indipendente…
Dal romanzo al film: Grisham contro i giganti
Il libro: una giuria contro il tabacco
Quando Grisham pubblica “La giuria”, ha già alle spalle una fila di bestseller. Ma qui alza il tiro: la causa non è contro un singolo colpevole, bensì contro uno dei poteri economici più intoccabili dell’America degli anni Novanta, le grandi compagnie del tabacco.
Sul banco degli imputati c’è una multinazionale – la Pynex – accusata dalla vedova di un fumatore morto di cancro ai polmoni. Il processo si tiene in Mississippi, terra di giurie tradizionalmente favorevoli alle richieste di risarcimento; ma proprio per questo la battaglia è feroce.
Dietro le quinte agisce Rankin Fitch, consulente di giuria pagato dalle aziende del tabacco. Il suo lavoro è semplice e inquietante: scavare nella vita di ogni giurato, trovare il punto debole, capire chi manipolare, chi spingere fuori dalla stanza, chi spaventare. È l’incarnazione di una professione che, negli Stati Uniti, esiste davvero: figure che studiano profili psicologici, abitudini, traumi, per prevedere come voterà una giuria.
Contro di lui si muovono due figure misteriose, Nicholas Easter e Marlee. Lui riesce a farsi selezionare come giurato; lei, da fuori, comincia a contattare i legali delle parti e a suggerire quella che sembra una vera eresia: il verdetto è in vendita. Chi paga la cifra più alta, ottiene la decisione.
Il romanzo non è solo un giallo giudiziario: è un attacco diretto a un’industria che per decenni ha vinto tutte le cause sulle sigarette, e a un sistema che permette ai soldi di entrare nel cuore del meccanismo democratico del processo.
Il film: dalla sigaretta alla pistola
Quando Hollywood decide di portare questa storia sullo schermo, qualcosa cambia. Nel 2003 siamo negli anni successivi all’accordo storico con cui le grandi compagnie del tabacco hanno accettato di pagare miliardi di dollari ai singoli Stati americani, e il cinema ha già raccontato questo mondo in un film come “L’informatore”. Così la produzione sceglie un’altra strada: nella versione cinematografica l’imputata non è un’azienda di sigarette, ma un produttore di armi.
La storia si sposta a New Orleans. Un impiegato entra armato in un ufficio, spara e uccide diversi colleghi. Una delle vittime è Jacob Wood; la vedova cita in giudizio la casa produttrice della pistola, accusandola di negligenza. Il processo, di fatto, diventa il simbolo della guerra legale contro l’industria delle armi.
Per il resto, i ruoli restano gli stessi:
- Rankin Fitch è ancora il burattinaio nell’ombra, esperto in manipolazione dei giurati.
- Nick Easter è il giurato troppo brillante per essere casuale.
- Marlee è la voce al telefono che propone il patto più amorale di tutti: “comprate” la giuria.
È una scelta di attualità: se il libro fotografava l’epoca in cui le cause contro il tabacco sembravano impossibili da vincere, il film punta i riflettori su un’altra ferita ancora aperta, quella della diffusione delle armi da fuoco.
Una giuria sotto assedio: suspense e critica sociale
Il tribunale come teatro di una guerra invisibile
A livello narrativo, “La giuria” funziona come un dispositivo a doppio registro. In superficie c’è il processo: testimoni, perizie, arringhe appassionate. Sotto, c’è un’altra storia, quella che Grisham aveva messo al centro del romanzo e che il film riprende con efficacia: la battaglia per il controllo delle persone sedute nella giuria.
Fitch e il suo team non si limitano a osservare i giurati. Li seguono, li sorvegliano, ne leggono le mail, scavano nei conti bancari, nelle abitudini, nelle fragilità. L’idea che una giuria sia composta da “dodici cittadini qualunque” viene smontata scena dopo scena: non c’è nulla di ingenuo nel modo in cui queste persone vengono selezionate e poi corteggiate, minacciate, spostate come pedine.
Nick e Marlee, però, non sono difensori della purezza del sistema. Al contrario: decidono di entrare nel gioco sporco e portarlo alle estreme conseguenze, spingendo entrambi i lati a credere che il verdetto possa essere comprato. È qui che il racconto si fa più ambiguo e interessante: la critica non si ferma alle multinazionali o agli avvocati senza scrupoli, ma investe anche chi cerca di usare il sistema per ottenere una “giustizia alternativa”.
Nick e Marlee: giustizieri, truffatori o qualcosa nel mezzo?
Una delle scelte più riuscite di Grisham è proprio quella di non trasformare Nick e Marlee in eroi cristallini. Nel romanzo scopriamo che la loro guerra contro il tabacco nasce da una storia personale di lutto; nel film, il passato viene suggerito e modificato, ma resta l’idea di una motivazione privata che si intreccia con una causa pubblica.
Nick, giurato numero due, conquista gli altri con un misto di ironia e disponibilità. Si offre di fare le fotocopie, aiuta chi è in difficoltà, stempera i conflitti. È l’amico che tutti vorremmo nella stanza; e proprio per questo risulta credibile quando comincia, lentamente, a indirizzare le discussioni.
Marlee, dall’esterno, è la voce che tiene il filo: dialoga con Fitch, lo provoca, lo spinge a tirare fuori il peggio di sé; allo stesso tempo si presenta anche agli avvocati della parte civile, offrendo lo stesso servizio. A un certo punto, la provocazione è esplicita: il verdetto va al miglior offerente.
Il lettore e lo spettatore sono messi in una posizione scomoda: tifiamo contro Fitch, ma non possiamo ignorare il fatto che Nick e Marlee stanno violando ogni regola, mentendo, manipolando una dozzina di persone che non hanno scelto di partecipare a questo gioco. È proprio in questa ambiguità che “La giuria” diventa interessante: la giustizia non si divide più in buoni e cattivi, ma in poteri che si affrontano su un terreno marcio.
Il potere delle lobby: tabacco, armi e denaro come ago della bilancia
Grisham e le cause impossibili
Fin dagli anni Novanta, Grisham ha usato i suoi romanzi per mettere al centro temi “caldi”: la responsabilità delle compagnie di assicurazione, la pena di morte, la corruzione dei tribunali, il ruolo delle multinazionali. Ne “La giuria” il bersaglio sono le aziende del tabacco, che all’epoca non avevano mai perso una grande causa sul tema della dipendenza e dei danni sulla salute.
Lo scrittore, in un’intervista, ha raccontato di essere affascinato proprio da questo: da come fosse possibile che milioni di morti fossero collegati a un prodotto perfettamente legale, e che nessuna giuria fosse mai riuscita a condannare seriamente chi lo produceva. Il romanzo immagina un processo che rompe questa invincibilità, ma lo fa mostrando quanto sia contaminato il percorso per arrivare al verdetto.
Il film, cambiando il focus dal tabacco alle armi, non tradisce questa idea. Anche qui assistiamo a una lotta contro un potere economico che ha modellato leggi, politica, cultura; anche qui la domanda non è solo se l’azienda sia colpevole, ma se il tribunale sia in grado di dirlo senza subire ricatti e pressioni.
Il processo come specchio della politica
Guardato oggi, “La giuria” sembra quasi un racconto sulla crisi di fiducia nelle istituzioni. Fitch e la sua squadra rappresentano quella parte di società convinta che tutto sia trattabile: giurati, giudici, opinione pubblica. Nick e Marlee, da parte loro, vedono nel sistema solo una macchina da battere con le sue stesse armi.
Nel mezzo c’è l’avvocato della parte civile – Wendell Rohr nel libro, Wendell Rohr anche nel film – che cerca di difendere la propria causa senza sprofondare nel fango. È il personaggio più idealista, interpretato da Dustin Hoffman con una stanchezza dolce e ostinata: sa di giocare una partita quasi impossibile, ma non rinuncia a crederci.
Quello che resta, sia sulla pagina che sullo schermo, è una sensazione precisa: la giustizia, da sola, non basta. Se il campo è inclinato, se una parte può permettersi consulenti, spionaggio, campagne mediatiche, la neutralità del processo è un’illusione.
Volti e dinamiche del film: quando il cast diventa un processo parallelo
Hackman e Hoffman: due modi di abitare il potere
Uno dei motivi per cui “La giuria” resta nella memoria è il confronto fra Gene Hackman e Dustin Hoffman, due giganti che, curiosamente, si sono incrociati pochissimo sullo schermo. Qui danno vita a un duello fatto più di parole e sguardi che di esplosioni.
Hackman, nel ruolo di Rankin Fitch, è la personificazione del cinismo: elegante, controllato, sempre circondato da schermi e dossier. Le poche volte in cui perde la calma, capiamo quanta violenza trattenga. È uno di quei personaggi che fanno paura proprio perché credibilissimi: non è un “genio criminale” alla fumetto, è un professionista del potere.
Hoffman, dall’altra parte, porta in Rohr una qualità quasi opposta: appassionata, ma non ingenua. Il suo avvocato sa che il sistema è sporco, ma si ostina a non voler barare. C’è una scena centrale – il loro faccia a faccia fuori dall’aula – che vale da sola il film: due uomini che conoscono tutte le regole non scritte del gioco e scelgono consapevolmente da che parte stare.
Cusack e Weisz: i fantasmi del sistema
Il cuore emotivo, però, sono John Cusack e Rachel Weisz. Cusack dà a Nick Easter un’ironia disincantata che lo rende sempre un passo avanti agli altri, ma anche leggermente inquietante: non sappiamo mai fino in fondo quali siano le sue intenzioni. Weisz, nei panni di Marlee, alterna durezza e vulnerabilità: è lei a portare nel film il peso del passato, la dimensione del lutto trasformato in strategia.
Attorno a loro si muove un coro di giurati che il film tratteggia con pochi colpi ma efficaci: il pensionato inflessibile, la giovane madre suggestionabile, il manager che teme per la carriera, la persona di fede che non vuole “giudicare”; tutti vengono studiati da Fitch, avvicinati, spinti in una direzione o nell’altra. È nella camera di consiglio, più ancora che in aula, che vediamo quanto sia fragile quell’idea di “giuria imparziale” che amiamo evocare.
Suspense, politica e limiti
Il risultato, sul piano cinematografico, è un thriller solido, che scorre con buon ritmo per oltre due ore e mantiene un equilibrio tra tensione di genere e commento sociale. Le recensioni all’uscita lo hanno accolto come un film intelligente e ben recitato, pur sottolineando qualche accomodamento di troppo nel finale rispetto alla durezza del romanzo.
Dal canto suo, il libro resta uno dei punti alti della produzione di Grisham: la critica dell’epoca lo definì il suo romanzo più teso e meglio costruito, proprio perché portava all’estremo il gioco del gatto e del topo tra Marlee, Nick e Fitch.
Certo, né pagina né schermo sono perfetti. C’è chi ha letto nella coppia di protagonisti una sorta di “vendetta privata” che rischia di romanticizzare la manipolazione; altri hanno sottolineato che, cambiando il nemico da tabacco ad armi, il film perde un po’ della specificità del romanzo. Ma è anche vero che questa duttilità dimostra quanto la struttura di “La giuria” sia potente: puoi spostare l’oggetto del processo, e il meccanismo continua a funzionare.
“La giuria” oggi
Oggi, i racconti di Grisham e i legal thriller in generale, toccano questioni che non abbiamo mai davvero risolto: quanto è protetta la giuria dai poteri esterni? Quante volte, in un processo, contano più le risorse economiche che le prove? Fino a che punto è legittimo “barare” per ottenere un verdetto che sentiamo giusto?
Il romanzo e il film non danno una risposta rassicurante. Ci lasciano con l’immagine di un verdetto che, almeno in apparenza, colpisce il potere e restituisce giustizia alle vittime. Ma ci ricordano anche quanto sia fragile la linea che separa la giustizia dalla vendetta, il processo dalla tratta dei verdetti.
