Prima di “Father Mother Sister Brother” Jarmusch aveva parlato di vampiri, perché quando si attraversano i secoli, quasi tutto passa e diventa insignificante: passano le mode, passano le città, passano perfino le parole che sembravano eterne. Quello che resta, più ostinato della carne, è l’arte. Un’impronta, ciò che ci ostiamo a lasciare in vita per chi verrà dopo.
Adam ed Eve, i vampiri protagonisti di “Solo gli amanti sopravvivono” (Tom Hiddleston, Tilda Swinton), vivono esattamente in questo punto. Sono “esseri primi” perché portano addosso una lunga memoria: ascoltano vinili come si ascolta una reliquia, attraversano libri come si attraversa una casa, collezionano suoni, strumenti, versi, come se fossero provviste. Hanno dimenticato la giovinezza e cercano solo un modo per non diventare vuoti.
Il film di Jim Jarmusch comincia da qui: dall’idea che la sopravvivenza sia una scelta oculata e che l’amore duraturo si basi sulla manutenzione, sul gesto quotidiano: una bellezza che il mondo non riesce a cogliere.
Adam ed Eve
L’amore, per Adam ed Eve, è un habitat, un posto in cui stare e tornare. Casa è l’uno nelle braccia dell’altra.
Adam è la parte fragile, il romantico consumato, quello innamorato dell’arte e insieme stanco del mondo; è come se la sensibilità, in lui, avesse preso forma e fosse diventata un organo esposto. Eve è la parte che regge e sostiene; lei attraversa la notte con calma e governa le tenebre. Insieme formano un equilibrio raro: due facce della stessa medaglia che non potrebbero vivere a distanza.
Il primo colleziona suoni e ferite, la seconda parole e possibilità. Sono amanti che non cercano l’eternità (ci sono già dentro), dunque ambiscono alla qualità dell’esistenza.
Il vampirismo come “dettaglio”
In “Solo gli amanti sopravvivono” il vampiro non è il predatore classico, ma l’esteta messo in scena per pensare ai propri, singoli bisogni perpetrati in una linea temporale troppo estesa; è un vampiro che, seppur osservato, non deve sedurre lo spettatore, bensì creare un “nido”: l’essere “reale” che ha vissuto troppo a lungo.
Adam ed Eve hanno il potere di osservare il mondo, di archiviarlo in immagini e sequenze e trattenerlo in forme piccole e preziose, gioendo dei cambiamenti. La loro ricchezza è l’arte, una collezione di vinili, libri, strumenti, frammenti di opere, nomi, citazioni, melodie. Come se la sopravvivenza, dopo secoli, coincidesse con un’unica abilità: saper riconoscere ciò che vale e proteggerlo dalla dissipazione.
È qui che Jarmusch fa una scelta elegante e crudele insieme: svuota il vampiro dell’adrenalina e gli restituisce una forma più vera, più contemporanea. Il vampiro come figura colta non è un “intellettuale” caricaturale, ma qualcuno che ha imparato che la bellezza è necessità.
Collezionisti di bellezza
Questa “depressione romantica” assume le sembianze di una forte corrente decadente, un’usura viscerale che è tipica di chi vede troppo e continua comunque a sentire il mondo, un luogo che va sempre troppo veloce, che dell’arte spesso se ne infischia, che pullula di gente scalmanata e rumore.
Adam ed Eve usano la parola “zombie” per indicare l’umanità e tuttavia non vogliono insultarla: la fotografano nel suo continuo agitarsi e muoversi senza vedere davvero.
La paura del contagio
E poi arriva la paura più concreta del film: il “contagio”. Il sangue avvelenato, la necessità di procurarsi una fonte pulita, la paranoia di ciò che entra nel corpo. È un’idea che funziona perché resta precisa: non diventa manifesto, non pretende di spiegare tutto. Rimane una sensazione fisica che, inevitabilmente, fa pensare al presente: l’aria che sembra meno respirabile, le relazioni che si intossicano, il nutrimento che non nutre più. Anche qui Jarmusch non alza la voce. Fa una cosa più sottile: racconta l’ansia come un problema di qualità, non di quantità. Non è “avere” sangue, è poterlo assumere senza pagare un prezzo invisibile.
In questa prospettiva, il vampiro smette di essere una fantasia gotica e diventa una figura quasi domestica: qualcuno che deve scegliere con attenzione cosa assorbire dal mondo per non ammalarsi. E, di riflesso, cosa evitare. È una metafora pulita perché non si compiace della metafora: resta dentro le cose. Nel gesto di rifiutare una sostanza impura c’è la stessa decisione che attraversa tutto il film: tenere lontano il superfluo, ridurre la scena, difendere ciò che è essenziale.
