Quando un classico della drammaturgia viene trasposto in chiave moderna, la sfida più difficile non è cambiare l’ambientazione o il costume: è far vibrare il nodo centrale. il conflitto dei sentimenti, le pressioni invisibili, l’alienazione vengono ambientati in un tempo nuovo.
Hedda (2025), che uscirà il 29 Ottobre su Prime Video, è un’operazione che tenta proprio questo: rilegge il capolavoro di Ibsen e lo trasporta in una notte fatale nell’Inghilterra degli anni ’50, un tempo di ordine apparente, ruolo rigidamente codificati e tensioni sotterranee.
Hedda: il nuovo film Prime Video che rivisita il classico di Ibsen senza tempo
Uno sguardo spezzato su una donna scomoda
In questa versione cinematografica, Hedda (interpretata da Tessa Thompson) non è solo l’archetipo della moglie annoiata e infelice, ma una figura che deve confrontarsi con le proprie ambizioni, i propri limiti e le proprie paure. Il film concentra l’azione nell’arco di una notte, durante una festa in una villa lussuosa, una location che funge da microcosmo: casa, immagine, prigione. È in quel breve ma intenso arco temporale che le relazioni familiari, i segreti, i rancori, le gelosie e le manovre di potere si smascherano.
La presenza di Eileen Løvborg (interpretata da Nina Hoss) introduce un contrappunto femminile forte: donna libera, tormentata, intellettualmente affiniata con Hedda, che diventa specchio e antagonista al tempo stesso. E poi c’è Thea (Imogen Poots), all’apparenza figura secondaria, ma che lentamente emerge come voce dissonante, capace di sovvertire le dinamiche della serata. Gli uomini, George (Tom Bateman) e il giudice Brack (Nicholas Pinnock), incarnano la norma, l’autorità, il disegno sociale. Ma non sono mai accessori: il potere che esercitano è sottilissimo, ma pungente come una lama invisibile, che scava le fratture nella protagonista.
Riscrivere un classico: scelte registiche e tematiche
Hedda non è una traduzione pedissequa del testo teatrale: è una rielaborazione che gioca con il genere del dramma psicologico, sospeso tra teatro e cinema. La regista, Nia DaCosta, sposta l’azione in un contesto anglosassone anni ’50, dove le apparenze familiari, le etichette sociali e le convenzioni borghesi funzionano come incastri che bloccano il desiderio.
La scenografia, una villa elegante, con arredi classici e spazi “di rappresentanza”, diventa essa stessa personaggio: mura che chiudono, stanze che scrutano, angoli che nascondono. Le luci, i silenzi, il ritmo sonoro dialogano con i corpi e le parole in tensione. Il film inserisce anche elementi di contemporaneità: questioni di genere, di identità, di privilegio e marginalità, regolando il conflitto della protagonista su molteplici piani: quello interiore, quello sociale, quello relazionale. Hedda è privilegiata, sì: ma non padrone del proprio destino.
Tre voci, tre destini: il femminile come campo di battaglia
Uno degli aspetti più intriganti è il confronto tra le tre donne della storia: Hedda, chiusa nei suoi limiti e desideri, tenta di dominare il sistema dall’interno; Eileen, che viene dal passato e sfida Hedda ad uscire dalle gabbie che la intrappolano; Thea, più giovane, meno segnata, che ricerca la propria autonomia, forse la sola che possa cambiare qualcosa.
Nel gioco delle relazioni, ogni dialogo è uno scambio di potere, di maschere, di silenzi. Le loro traiettorie divergono, si intersecano e si scontrano, mettendo in luce uno dei temi stabili del racconto: il prezzo dell’autonomia femminile in un mondo ancora plasmato da regole patriarcali invisibili. Un finale sospeso: domanda più che risposta Il film non offre un finale facile né consolatorio. Chi osserva Hedda vede una figura scissa: vittima e carnefice, incatenata e ribelle, ambiziosa e distrutta.
Hedda Gabler, ieri e oggi:
Quando Henrik Ibsen scrisse Hedda Gabler nel 1890, la società borghese europea era intrappolata in convenzioni morali soffocanti. Ma dentro quelle stanze borghesi, Ibsen piazzò una bomba: una donna inquieta, insoddisfatta, feroce, incapace di trovare un ruolo che non la mortifichi. Hedda non ama, non lotta, non costruisce: Hedda distrugge. O, più precisamente, si autodistrugge.
Il film Hedda del 2025 (su Prime Video), pur spostando l’ambientazione nell’Inghilterra anni ’50, mantiene intatta la tensione originaria del dramma ibseniano: la protagonista non è più solo “una moglie borghese infelice”, ma una figura universale che si muove sul confine tra libertà e impotenza, desiderio e annullamento.
Dalla pagina al corpo: l’evoluzione della tragedia
Nel testo teatrale, Hedda Gabler è una donna appena tornata dal viaggio di nozze con un uomo che disprezza, annoiata dalla sua stessa vita, ma terrorizzata da ciò che potrebbe accadere se osasse cambiarla davvero. Il suo gesto finale, il suicidio, non è solo un atto di disperazione, ma un grido: “Piuttosto morire che essere mediocre” .
Il film di Nia DaCosta non ricalca fedelmente la struttura ibseniana, ma ne distilla l’anima: la festa borghese come prigione, la notte come palcoscenico dell’anima, le relazioni come dispositivi di controllo e maschera. La villa in cui si svolge l’azione è claustrofobica, quasi teatrale, un’eco scenografica dell’ambiente chiuso dell’opera originale. La nuova Hedda, interpretata da una magnifica Tessa Thompson, porta nel corpo la rabbia di una donna che ha letto i libri, conosce la passione, intuisce il mondo… ma non riesce a viverlo. E proprio come la Hedda di Ibsen, anche questa versione contemporanea sceglie il silenzio radicale del gesto finale, piuttosto che la resa.
Il potere e la sua messa in scena
Nel teatro ibseniano, ogni parola è potere. Hedda manipola, mente, seduce e distrugge attraverso il linguaggio. Anche nel film, le conversazioni tra i personaggi sono schermaglie, recite, tentativi di affermazione: le parole servono a tenere a distanza il dolore, il desiderio, la verità.
Il giudice Brack, nel testo di Ibsen, è l’ombra del potere maschile che tutto osserva e tutto insinua. Nel film, quel potere assume contorni più sfumati ma altrettanto violenti: il patriarcato non è solo nei ruoli sociali, ma nelle aspettative interiorizzate, nel disprezzo per la debolezza, nella paura di apparire “non all’altezza”.
La solitudine femminile come destino Forse il nodo più forte che collega testo e film è la solitudine femminile. Hedda, sia in teatro che su schermo, è profondamente sola: non trova alleate, né nel marito né nei vecchi amori, e nemmeno nelle donne. Anche nel film, le relazioni tra donne non sono mai facili: Thea è l’antitesi di Hedda, ma ne è anche il riflesso tragico. Una cerca salvezza, l’altra è già perduta.
Il femminismo contemporaneo potrebbe leggere Hedda come una vittima delle strutture di potere. Ma Ibsen, e il film, non le offrono alcuna assoluzione. Hedda è anche crudele, irresponsabile, sadica. Questo è ciò che rende il personaggio ancora oggi perturbante e insopportabile: non può essere incasellata, non è una martire, né un modello.
L’attualità della tragedia Il film mostra quanto Hedda Gabler sia ancora radicalmente attuale: il conflitto tra ciò che una donna desidera essere e ciò che la società le permette di diventare è ancora vivo. E quella violenza silenziosa che attraversa la casa, che costringe a sorridere, che trasforma ogni gesto in un rituale, non è affatto sparita.
Se Hedda, nel finale del film, sorride prima del gesto definitivo, non è per rassegnazione , ma per una consapevolezza nuova: “Io non sarò mai ciò che voi volete. E per questo, vi spavento.”
Perché vedere “Hedda” oggi
Una riscrittura contemporanea: il film prende le tensioni del testo classico e le fa parlare al presente, specie in temi di libertà femminile, identità e costrizione sociale. Una protagonista complessa: Hedda non è eroina né vittima facile, ma figura dolorosamente ambivalente.
Un lavoro visivo e simbolico: la casa come labirinto, la festa come superficie ipocrita, la notte come terreno della verità. Un confronto tra donne: le dinamiche tra Hedda, Eileen e Thea mostrano quanto il femminile non sia monolitico, ma campo di conflitto, desiderio, scelta e rinuncia.