E’ ufficiale: la montagna e le scalate in quota sono ormai la moda del momento nel settore dello sport. Sugli scaffali delle librerie ci sono numerosi libri scritti da alpinisti-giornalisti e nelle sale cinematografiche il fenomeno inizia a diffondersi grazie il film Everest (2015), ambientato appunto sulla vetta più alta del mondo. E poi ci si mette pure la tv, con il reality ambientato sul Monte Bianco.
Scrivo da amante delle tranquille camminate domenicali in montagna. Il mio primissimo esordio su una montagna anni fa fu letteralmente «Io non sono fatta per la montagna», frase sospirata per tutta la durata del tragitto. Eh sì, perché la montagna richiede sicuramente passione e amore per la natura, ma anche preparazione fisica, determinazione e forza di volontà. Sulla montagna, insomma, non ci si può improvvisare. E pensare che ci sono persone – trattasi di turisti e non di professionisti – disposte a pagare migliaia di dollari per scalare le montagne più impervie del mondo, con tanto di società che, a suon di denaro contante, organizzano le ascese in gruppo, mettendo a disposizione guide alpine e tutta l’attrezzatura necessaria all’impresa.
È quello che è successo sull’Everest, nel maggio del 1996, la cui scalata da parte di alcuni gruppi di spedizioni commerciali è finita in tragedia. Gli avvenimenti sono stati raccontati dal giornalista e alpinista Jon Krakauer (già autore della biografia Into the Wild – Nelle terre selvagge, da cui Sean Penn ha tratto l’omonimo film) nel saggio-reportage Aria sottile (1997), dal quale è stato tratto il film Everest di Baltasar Kormákur.
Jon Krakauer è uno dei superstiti dell’impresa del 10 maggio 1996. Si trova sull’Himalaya come inviato della rivista Outside proprio per documentare la sempre più diffusa moda delle spedizioni commerciali ad alta quota organizzata da società private, che vogliono offrire ai clienti la possibilità di scalare le vette più alte del mondo insieme a guide alpine professioniste.
Krakauer (interpretato nel film da Michael Kelly) fa parte del gruppo capitanato dalla guida Rob Hall (Jason Clarke nel film) dell’agenzia Adventure Consultants e di cui fanno parte ricchi turisti provenienti da varie parti del mondo (e che si uniscono in gruppi per avere una sorta di “sconto comitiva” sulla tassa del pedaggio imposta dal governo, in questo caso nepalese), pagando ciascuno 65.000 dollari per questa “indimenticabile” esperienza.
Durante la preparazione a tappe, che consiste in un primo ritrovo in Nepal e al raggiungimento del campo base prima e dei successivi campi in seguito, il gruppo di Rob Hall si trova a condividere la tenda con un’altra spedizione commerciale, capitanata da Scott Fischer (Jake Gyllenhaal nel film), organizzata dalla Mountain Madness, oltre che a un’altra spedizione taiwanese.
Dopo molti giorni trascorsi sull’Everest e superati tutti i campi, le guide stabilisco che è ormai giunto il momento di completare la scalata e arrivare sulla cima della montagna. È il 10 maggio e le condizioni climatiche sembrano favorevoli. Hall e Fischer, che decidono di unire i loro gruppi, danno così il via all’arrampicata, dalla quale non faranno più ritorno. Sia Hall che Fischer perderanno la vita durante le fasi del rientro al campo, poiché vengono sorpresi da una tempesta e dalla mancanza di scorte di ossigeno. Oltre a loro due, moriranno anche sei clienti.
Jon Krakauer scrive un durissimo articolo per l’Outside, subito pubblicato nel 1996, in cui ritiene che la tragedia sia stata causata da una scarsa organizzazione da parte delle guide e degli alpinisti professionisti presenti e dalla mancanza di preparazione dei clienti, affermando che con una migliore gestione si sarebbe potuta evitare la perdita di vite umane.
Nel 1997 Krakauer estende l’articolo, che diventa così il saggio-reportage Aria sottile, nel quale racconta i fatti accaduti attraverso una precisa ricostruzione e spiega anche le difficoltà fisiche e psicologiche di un’impresa tanto ardua quanto pericolosa e mortale di scalare una montagna a quota 8.000 metri. Un’impresa che, a suo parare, è stata assai sottovalutata da coloro che hanno perso la vita sull’Everest.
In risposta alle accuse di Jon Krakauer, la guida sovietica Anatoli Boukreev (Ingvar Eggert Sigurðsson nel film) risponde con il libro The Climb, fornendo una sua versione dei fatti. Boukreev faceva parte del gruppo di Scott Fischer ed è uno dei sopravvissuti alla tragedia. Decise di salire in vetta senza la bombola di ossigeno e fu uno dei primi a raggiungere la meta e a tornare al campo. Krakauer lo accusa di aver abbandonato i clienti del suo gruppo per l’impellenza di far ritorno al campo per non avere una bombola con sé, ma il sovietico si difende dicendo che aveva fatto ritorno per recuperare delle bombole da portare ai clienti, che nel frattempo avevano iniziato la discesa, e che aveva accordato il da farsi con Fischer.
Probabilmente la verità rimarrà sepolta tra le cime innevate dell’Everest, insieme ai tanti corpi dispersi e mai recuperati.
È dal 1953 che l’uomo sfida la vetta più alta del mondo: sono più di 4.000 gli alpinisti che hanno toccato la cima dell’Everest, e sicuramente sempre più persone lo faranno, grazie anche alle scalate commerciali organizzate dai privati. Certo è che sfidare la montagna in solitaria, da esperti professionisti, è una cosa. Farsi portare a quota 8.000 metri come turista, magari con scarsa preparazione, è un’altra. Senza contare che con il flusso sempre crescente di presenze, l’habitat naturale rischia di essere stravolto e compromesso.
Valentina Morlacchi