Nel loro spettacolo “La mort de la mer”, presentato a Bolzano per Transart, le CocoRosie trasformano il teatro in un’esperienza anarchica e sensoriale, sospesa tra danza, musica e poesia. Un viaggio emotivo che scardina ogni forma e riconduce il pubblico al cuore viscerale dell’arte.
CocoRosie e il teatro sperimentale contemporaneo
Chi ha paura di un teatro senza trama, senza ruoli fissi, senza un inizio e una fine? Sicuramente non le CocoRosie, duo musicale e performativo composto dalle sorelle Bianca e Sierra Casady, che con “La mort de la mer” hanno portato a Bolzano, per il festival Transart, una tempesta teatrale senza coordinate. Uno spettacolo che si rifiuta di essere “racconto”, preferendo essere frammento, atmosfera, evocazione, corpo che si disgrega e si reinventa davanti agli occhi dello spettatore.
Nel loro universo visionario, ogni linguaggio è fluido: la danza si mescola alla performance, la musica si fonde con l’installazione, la voce si fa strumento e la parola diventa immagine. Il teatro, nelle mani delle CocoRosie, non è più un mezzo per rappresentare: è un campo di battaglia emotivo e politico, in cui la libertà creativa è l’unico comandamento.
Il progetto: collage di memorie, tra arte e apocalisse
“La mort de la mer” spiegano Bianca e Sierra nell’intervista a Robinson, è nato durante la pandemia, un periodo di profondo malessere che Bianca ha attraversato creando collage a partire da vecchie riviste. Quegli stessi frammenti, ritagliati e incollati, sono diventati materia visiva e concettuale di uno spettacolo che si presenta come un’epopea marina post-apocalittica. La scena è popolata da creature ibride, anime erranti che fluttuano tra le rovine del mondo moderno, legate dal tema della propaganda e dal crollo delle ideologie.
Bianca racconta di aver lavorato a lungo su materiali iconografici legati alla propaganda della Seconda guerra mondiale, ma anche a quella contemporanea, sviluppando l’idea che il linguaggio visivo del potere, con i suoi simboli, colori e stereotipi, potesse essere scomposto e risemantizzato in scena. “Il miracolo della propaganda è che usa il mito per trasformare l’orrore in bellezza”, afferma, “ma io volevo rovesciare quel meccanismo”.
Un teatro di corpi, senza trama né gerarchie
Nello spettacolo non ci sono personaggi in senso tradizionale: tutti i performer, tra cui l’acclamato danzatore butoh giapponese Akihito, musicisti di estrazione classica e artisti visivi, partecipano a una danza collettiva in cui il centro non esiste. Sierra canta, suona e interpreta con il corpo. Bianca dirige, interviene, si muove tra scenografie mobili, proiezioni e suoni che fluttuano come onde. Il butoh, con la sua carica espressiva, grottesca e rituale, emerge come lingua corporea privilegiata.
La presenza di Akihito, con il suo stile robotico e viscerale, sottolinea l’intento di destrutturare ogni narrazione lineare, creando un teatro-mondo dove non c’è separazione tra artista e spettatore, tra scena e platea. Le CocoRosie parlano di un teatro in cui ogni gesto può contenere il tutto: un piede che striscia sul pavimento, un urlo soffocato, un bisbiglio elettronico. E il pubblico, disorientato e affascinato, è invitato a lasciarsi andare a questo flusso anarchico.
Dove inizia la musica, dove finisce la scena
Non è un caso che le CocoRosie abbiano iniziato come duo musicale sperimentale e abbiano poi ampliato il loro linguaggio verso il teatro performativo. La loro musica, un ibrido tra folk fiabesco, elettronica lo-fi, voci infantili e strumenti giocattolo, è sempre stata “teatrale” nella sua natura frammentaria e visionaria. In “La mort de la mer”, ogni brano si intreccia con l’azione scenica, diventando parte della drammaturgia emotiva.
I musicisti in scena (Viola Wildgruber al clarinetto, Marc Chouarain al tasctiere, Thomas Wieselmann alla chitarra, Simone Dratva al violino) non sono solo accompagnamento: sono parte del corpo vivo dello spettacolo, ne determinano ritmo e respiro. Lo spettacolo delle CocoRosie è un atto politico proprio perché rifiuta ogni chiusura.
Non c’è una morale, non c’è un messaggio preciso. C’è piuttosto una domanda aperta: che cosa resta, quando tutto è finito? E forse la risposta è proprio in quel mare, evocato fin dal titolo, simbolo di morte e di rinascita, di movimento incessante. “Ci interessava il mare come figura del femminile, dell’informe, del corpo che muta”, dice Sierra. Il mare è la madre che inghiotte, la creatura che protegge e distrugge. Ed è lì che si muovono le protagoniste dello spettacolo, tra acque oscure e ricordi fluttuanti, in cerca di una nuova lingua per dire il dolore, la perdita e la trasformazione.