Un ritiro spirituale in un luogo isolato, uomini importanti che parlano sottovoce, un’epidemia fuori che taglia i contatti col mondo. Poi, una morte e un’altra ancora “Todo modo” di Elio Petri parte come un’idea da romanzo nero e si trasforma in una visione che fa salire i battiti all’osservatore, schiacciandolo contro lo schienale della poltrona.
Un film che è tensione pura
Ma “Todo modo” non è un semplice thriller: nato dalla penna di Leonardo Sciascia, usa la suspense per far emergere comportamenti umani e il ritmo come un metronomo sperimentale; dove stringe, dove fa male, incrina i suoi personaggi in un labirinto dove loro stessi sono relegati: l’“eremo” di Zafer, un luogo chiuso che sembra nato per cancellare il mondo, un albergo-convento.
Un ritiro e la paura di perdere il centro
La storia comincia da un’idea che sembra un dettaglio e invece è una dichiarazione di poetica: fuori c’è un’epidemia, e un gruppo di notabili si rifugia all’“eremo” di Zafer per esercizi spirituali; una sorta di Decameron. Lì dentro la religione non è solo fede, ma un linguaggio, una grammatica, una liturgia che promette assoluzione — e intanto organizza i rapporti di forza.
In questo spazio, Petri costruisce un teatro domestico del comando: corridoi, stanze, confessionali, sale comuni.
Tutto è ravvicinato, tutto è sorvegliato, ma di colpo cominciano i delitti: uno dopo l’altro, come se qualcuno stesse giocando a jenga e togliendo i tasselli più in basso. Il dubbio comincia a dilagare e la domanda non è “chi è stato” (anche se la tensione del giallo c’è): il punto è che cosa succede a una classe dirigente quando il copione collettivo si strappa.
Volonté e Mastroianni: due modi di guidare la stanza
Se il film funziona come un esperimento, è perché Petri mette al centro due presenze che fanno da calamita, due attori con la A maiuscola.
Gian Maria Volonté interpreta M., “il Presidente”: un uomo che incarna il potere come postura. Non alza la voce, raramente accelera; sembra sempre un mezzo passo prima degli altri, come chi conosce la temperatura della stanza e sa quando spostare l’aria.
Marcello Mastroianni è don Gaetano, il sacerdote che governa l’eremo: non è un confessore nel senso rassicurante del termine. È un regista del clima morale, qualcuno che sa far sentire gli altri colpevoli senza quasi nominarne la colpa. Non ti spinge: ti orienta. È il tipo di autorità che non ti obbliga, ma ti fa capire che l’obbligo esiste già.
Attorno a loro si muove un coro perfetto per questa atmosfera: Mariangela Melato, Michel Piccoli, Ciccio Ingrassia e altri volti che sembrano portare addosso il peso dei ruoli prima ancora delle battute.
Il vero “orrore” non è il sangue, ma è l’ordine
Il film viene spesso avvicinato al grottesco, e il paragone ha senso: Petri non cerca realismo puro, bensì una lente che deformi quanto basta per rendere leggibile le sue metafore e il libro di Sciascia.
Ma qui il grottesco non serve a far ridere: serve a far notare i tic, le frasi automatiche, le riverenze, la piccola economia dei favori. È una commedia nera senza compiacimento: non fa la morale, semmai mette in scena la morale come strumento.
E infatti la cosa più inquietante non sono gli omicidi: è la reazione degli altri.
Come cambiano i silenzi. Come si ridisegnano le alleanze. Come, anche in un luogo che si dichiara “ritiro”, torna subito la vecchia regia invisibile: chi parla, chi tace, chi viene ascoltato, chi viene ignorato.
L’utilità di “Todo modo”
Nel senso più concreto possibile, “Todo modo” diventa utile a chi si occupa di cultura: perché non è un film “da slogan”, è un film da attrito. Ti costringe a notare quanta energia spendiamo, ogni giorno, per far funzionare una versione presentabile di noi stessi — e quanta ne spendono i sistemi di potere per restare presentabili mentre decidono.
Morricone
La colonna sonora di Ennio Morricone non accompagna: incide. È uno di quei casi in cui la musica non è “bella” nel senso decorativo; è precisa, tagliente, quasi una pressione costante. Ti ricorda che in quel luogo niente è neutro: neppure un’intonazione.
Un film che ha avuto bisogno di essere visto di nuovo
C’è anche un dato materiale che racconta la vita di questo titolo: “Todo modo” è stato restaurato nel 2014 dalla Fondazione Cineteca di Bologna e dal Museo Nazionale del Cinema di Torino, in collaborazione con gli aventi diritto e il laboratorio L’Immagine Ritrovata. Questo significa una cosa molto semplice: il film è tornato a mostrarsi com’era, non come lo ricordavamo.
E qui si capisce una verità che spesso dimentichiamo: un’opera “scomoda” non vive solo di ciò che dice, ma anche di come può circolare, riapparire, essere rimessa in circolo quando il tempo è pronto a sostenerla senza ridurla a rumoroso feticcio.
Leonardo Sciascia e l’eremo come trappola narrativa
Prima del film c’è il romanzo. “Todo modo” di Leonardo Sciascia viene pubblicato nel 1974: formalmente è un giallo, ma la sua ambizione non è l’enigma come gioco, è l’enigma come radiografia. Il protagonista è un pittore (senza nome) che cerca pace e finisce all’Eremo di Zafer, un luogo “imprecisato” trasformato in albergo per ritiri spirituali frequentati da ministri, dirigenti, uomini di potere.
Nel libro l’eremo funziona come una camera di compressione: porta insieme persone abituate a controllare il mondo esterno e le costringe in uno spazio chiuso, dove la spiritualità rischia di diventare una tecnica di gestione. Don Gaetano, anche qui, è la figura che tiene in mano i fili: non è semplicemente un personaggio, è un metodo.
Petri “traduce” questa trappola narrativa con un’operazione che non è scolastica: prende la struttura, la piega, la rende più carnale, più visiva, più teatrale. Sciascia lavora per sottrazione e precisione; Petri lavora per pressione e spazio. Ma l’idea di fondo resta: quando il potere si mette in ritiro, spesso non si purifica — si riorganizza.
