Una frase di László Krasznahorkai sulla forza dell’amore per conquistare la libertà umana

9 Ottobre 2025

Scopri la frase di László Krasznahorkai, Premio Nobel per la letteratura 2025, rivela che solo l’amore può liberare l’uomo dalla solitudine e condurlo alla vera libertà.

Una frase di László Krasznahorkai sulla forza dell'amore per conquistare la libertà umana

Una frase di László Krasznahorkai offre una riflessione profonda sulla libertà, sull’amore e sulla solitudine irrimediabile dell’uomo. Se l’amore svela tutto il suo potere come esperienza individuale e non come un atto collettivo, non avrà mai il potere di stimolare quella ribellione in grado di garantire la necessaria libertà.

…La libertà prodotta dall’amore era la condizione più elevata disponibile nell’ordine dato delle cose, e dato ciò, quanto era strano che tale amore sembrasse essere caratteristico delle persone sole, condannate a vivere in perpetuo isolamento, che l’amore fosse uno degli aspetti della solitudine più difficili da risolvere, e quindi tutti quei milioni e milioni di amori individuali e ribellioni individuali non avrebbero mai potuto sommarsi a un singolo amore o ribellione, e che poiché tutti quei milioni e milioni di esperienze individuali testimoniavano l’insopportabile fatto dell’opposizione ideologica del mondo a questo amore e ribellione, il mondo non avrebbe mai potuto trascendere il suo primo grande atto di ribellione, perché tale era la natura delle cose, era ciò che era destinato a seguire qualsiasi grande atto di ribellione in un mondo che esisteva realmente ed era effettivamente posto in opposizione ideologica, vale a dire che non era accaduto e non era seguito, e ora non sarebbe mai arrivato ad essere…

Questa frase molto complessa di Krasznahorkai, nasce da uno dei suoi libri più originali, mette a nudo il paradosso dell’amore autentico. Esso è la condizione più elevata raggiungibile nell’ordine del mondo, ma anche la più solitaria.
L’amore puro, libero da interesse e menzogna, rende l’uomo “perfettamente, incondizionatamente e sotto ogni aspetto libero”. Ma proprio questa purezza lo separa da tutto ciò che è collettivo, organizzato, sociale.
È una libertà che illumina e isola, un dono che diventa condanna.

Il contesto della frase di László Krasznahorkai

Per comprendere meglio tutta la bellezza filosofica di questa frase è giusto contestualizzarla all’interno del romanzo. Siamo nel quinto capitolo A Venezia del libro Guerra e guerra (Háború és háború) del Premio Nobel per la Letteratura 2025, László Krasznahorkai, pubblicato per la prima volta in Ungheria nel 1999 e tradotto in Italia da Bompiani nel 2020.

La riflessione non nasce in un trattato filosofico, ma in una scena quotidiana e tragica. Korin, l’archivista protagonista del romanzo, siede in una cucina di New York di fronte a Maria, la compagna dell’interprete che lo ospita.

Maria ha il volto tumefatto, segnato dalla violenza dell’uomo con cui vive ovvero l’interprete Sárváry, che è un connazionale di Korin, un ungherese emigrato a New York. Fa da interprete per chi, come Korin, non conosce bene l’inglese. È lui ad accoglierlo nell’appartamento in cui vive con Maria, la sua compagna, la donna che Korin troverà più volte con il volto tumefatto.

A differenza di Korin, Sárváry è radicato nel caos metropolitano. Si muove tra miseria, piccoli traffici, ambiguità. È un uomo violento, instabile, dedito all’alcol, e rappresenta una figura speculare e degradante del protagonista.

Se Korin è ossessionato dalla salvezza del manoscritto, cioè dal tentativo di dare forma eterna a qualcosa di bello e puro,  Sárváry è l’uomo che vive nell’abbrutimento, nell’immediatezza, nel linguaggio corrotto e terreno.

La scena si svolge in cucina. Fuori nevica. Dentro, il silenzio pesa come una colpa. Per rompere l’imbarazzo, Korin inizia a raccontarle il contenuto del manoscritto che lo ossessiona — un testo antico che narra le vicende di quattro viaggiatori diretti a Venezia. È dentro quel racconto, in una carrozza che attraversa la valle del Brenta, che Kasser, uno dei quattro protagonisti del manoscritto,  pronuncia il lungo discorso sull’amore puro.

Così, in un intreccio di piani narrativi, la teoria sull’amore come libertà assoluta risuona in un luogo segnato dall’assenza d’amore e dalla violenza. L’ideale e la carne si specchiano e si negano a vicenda.

L’amore deve vincere la solitudine per rendere l’umanità davvero libera

La frase László Krasznahorkai va letta più volte per dare senso all’importante messaggio che l’autore ungherese dona all’umanità. L’amore assume il potere di garantire la liberazione dell’umanità, ma solo se sa trasformarsi in esperienza condivisa. È la forma di ribellione più grande che l’umanità può compiere se vuole realizzare i propri sogni.

La libertà prodotta dall’amore: l’atto più alto dell’essere umano

Quando Kasser pronuncia le parole

La libertà prodotta dall’amore era la condizione più elevata disponibile nell’ordine dato delle cose

Krasznahorkai afferma che non esiste una libertà più alta di quella che nasce dall’amore.

L’amore, nella sua forma più pura, è l’atto con cui l’essere umano si libera dalle catene dell’egoismo, della paura e del potere. È un gesto che affranca l’individuo dall’ordine prestabilito, dal “dato” del mondo, dalla sua struttura ideologica e sociale.

Chi ama autenticamente non obbedisce, ma ama contro il mondo, e proprio per questo raggiunge una libertà interiore che nessuna legge o sistema può concedere.

Il paradosso della solitudine: la libertà che isola

Ma subito dopo, la frase si piega nel suo primo paradosso:

e dato ciò, quanto era strano che tale amore sembrasse essere caratteristico delle persone sole, condannate a vivere in perpetuo isolamento.

Qui Krasznahorkai riconosce l’ambiguità più profonda dell’amore. L’amore che libera è anche quello che isola.

Chi ama in modo assoluto è destinato alla solitudine, perché la purezza del sentimento non trova un corrispettivo nel mondo corrotto e distratto che lo circonda.

L’amore autentico diventa così un’esperienza interiore, mistica e intrasmissibile, che illumina ma separa, che salva ma non condivide.

L’amore come il volto più profondo della solitudine

Segue allora la constatazione più amara:

che l’amore fosse uno degli aspetti della solitudine più difficili da risolvere”.

L’amore, che dovrebbe colmare la distanza tra due esseri umani, diventa qui il luogo stesso della distanza.

Perché amare davvero significa riconoscere l’altro nella sua irriducibile alterità, e dunque accettare che non potrà mai esserci fusione, solo dialogo, solo tensione. La solitudine dell’amore non è un fallimento sentimentale, ma una condizione ontologica. È la prova che anche nell’unione più profonda resta un vuoto che non si può colmare.

Milioni di amori che non diventano mai una rivoluzione

Poi arriva la riflessione più lucida e disillusa:

e quindi tutti quei milioni e milioni di amori individuali e ribellioni individuali non avrebbero mai potuto sommarsi a un singolo amore o ribellione.

Qui l’autore allarga lo sguardo all’umanità intera: milioni di individui amano, soffrono, si ribellano, ma ognuno lo fa da solo.

Non esiste un amore collettivo, un’energia comune capace di trasformare la solitudine in forza. È una diagnosi dolorosa della condizione moderna. La frammentazione dell’esperienza, l’impossibilità di sommare le libertà individuali in una libertà condivisa.

Ogni amore è un’isola, ogni ribellione un sussurro destinato a spegnersi nel rumore del mondo.

L’opposizione del mondo all’amore

Infine, la frase si chiude con la visione più cupa e metafisica del romanzo:

poiché tutti quei milioni e milioni di esperienze individuali testimoniavano l’insopportabile fatto dell’opposizione ideologica del mondo a questo amore e ribellione, il mondo non avrebbe mai potuto trascendere il suo primo grande atto di ribellione…

Krasznahorkai svela che il mondo stesso, inteso come sistema di poteri, di credenze, di violenze, si oppone per natura all’amore. È come se la realtà fosse costruita in modo da respingere ogni tentativo di purezza e libertà.

L’universo umano resta prigioniero di una ribellione originaria: quella frattura tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, tra l’armonia perduta e la disarmonia del presente.

Per questo, conclude l’autore, il mondo “non sarebbe mai arrivato ad essere” libero. Perché la libertà dell’amore, così luminosa e assoluta, rimane confinata nell’intimo dei singoli, incapace di farsi storia, società, civiltà.

La liberazione possibile: dall’amore solitario alla comunione

Alla fine di questo lungo ragionamento, Krasznahorkai non ci consegna solo una visione tragica, ma lascia anche intravedere una possibilità di liberazione, un varco sottile dentro la solitudine.
Se l’amore è la forma più alta di libertà, ma resta confinato in esperienze individuali, la sfida diventa capire come quelle libertà separate possano riconoscersi, rispecchiarsi, toccarsi almeno per un istante.

Nel capitolo della cucina, la neve che cade fuori dalla finestra sembra avvolgere due forme di libertà diverse ma complementari.

Maria, vittima di un amore violento e possessivo, rappresenta la libertà che cerca di liberarsi dall’oppressione: la libertà del corpo e della dignità, quella che passa attraverso il dolore e la resistenza silenziosa.
Il suo volto, segnato dai lividi, è l’immagine del mondo che nega l’amore e lo trasforma in dominio.

Eppure, nel suo tacere e nel suo restare viva, Maria afferma già una prima forma di ribellione: quella di chi non smette di esistere, nonostante la violenza. La sua libertà è la lotta per sopravvivere, la libertà ferita che non ha ancora trovato parola ma resiste nel silenzio.

Korin, al contrario, incarna la libertà dell’anima e del pensiero.

La sua missione, salvare un manoscritto, consegnarlo all’eternità, è un tentativo disperato di trascendere la materia, di liberarsi non da un uomo, ma dal tempo, dall’oblio, dalla disgregazione del senso.
È una libertà intellettuale e spirituale, ma anch’essa solitaria, condannata all’astrazione.

Nel suo rifugiarsi nella parola, Korin si allontana dalla vita concreta, eppure nel suo gesto si cela una forma altissima di amore: il desiderio di salvare qualcosa di puro, di bello, di umano.

Queste due libertà, quella corporea e ferita di Maria e quella mentale e metafisica di Korin, scorrono parallele come due fiumi che non si incontrano mai, ma che sanno di esistere nello stesso paesaggio.
Sono la dimostrazione che la libertà, come l’amore, non si realizza pienamente nell’isolamento. Solo quando la libertà dell’anima si china sulla libertà del corpo, quando il pensiero riconosce il dolore concreto, nasce una vera comunione.

Forse è proprio in quel momento, mentre Maria e Korin guardano insieme la neve, che accade qualcosa di infinitamente piccolo e decisivo: due solitudini si sfiorano.

Non si parlano, non si comprendono del tutto, ma condividono un frammento di mondo. È lì che l’amore smette di essere una teoria e diventa presenza, compassione, possibilità.

László Krasznahorkai sembra dirci che la vera liberazione non è né quella del corpo né quella dello spirito, ma il punto in cui le due si incontrano.

Quando l’amore riesce a passare dalla mente al gesto, dalla parola al volto dell’altro, dalla solitudine alla relazione. Solo allora l’amore cessa di essere ribellione individuale e diventa atto umano universale: una libertà condivisa che non salva il mondo, ma lo illumina per un istante.

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