C’è una frase di Cicerone che racchiude una grandissima verità e, allo stesso tempo, spiega perché la celebrazione dei defunti, il 2 novembre, il Giorno dei Morti, è così importante.
È una frase che ricorda come fiori, lapidi e lumini non servano soltanto a onorare la memoria di chi non c’è più. Servono, soprattutto, a mantenerli vivi nella coscienza di chi resta e nell’ambito dell’intera comunità, grazie al gesto stesso del ricordare.
Perché ogni atto di memoria è una forma d’amore che resiste al tempo. È un modo silenzioso per affermare che coloro che sono stati amati vivono ancora, grazie all’azione che si compie nel rendere loro omaggio e i giusti onori.
La vita dei morti è riposta nel ricordo dei vivi.
Vita enim mortuorum in memoria est posita vivorum.
Cicerone e il senso immortale della memoria
Questa frase di Cicerone è tratta dalla Nona Filippica di Marco Tullio Cicerone, pronunciata nel 43 a.C. nel Senato romano.
Le Filippiche sono una serie di orazioni pronunciate (o scritte) da Marco Tullio Cicerone tra il 2 settembre del 44 a.C. e il 21 aprile del 43 a.C., durante uno dei momenti più drammatici della Repubblica romana.
Con queste parole, l’oratore si scagliava contro Marco Antonio, erede politico e militare di Cesare, accusandolo di aver tradito la libertà di Roma.
Cicerone volle chiamarle Philippicae per omaggiare Demostene, il grande oratore greco che aveva combattuto con la parola contro la tirannia di Filippo di Macedonia. Come Demostene, anche Cicerone sognava di difendere la libertà e la dignità dello Stato con la forza del pensiero, non con le armi.
Le Filippiche diventano così il suo testamento morale e politico, il grido ultimo di un uomo che voleva salvare Roma dalla tirannide.
La Nona Filippica e il ricordo di Servio Sulpicio Rufo
Tra le quattordici orazioni che ci sono giunte, la Nona Filippica ha un tono diverso: non è un attacco, ma un elogio funebre.
Fu pronunciata nel febbraio del 43 a.C. nel Tempio della Concordia, in onore del giurista Servio Sulpicio Rufo, morto durante una missione diplomatica inviata dal Senato presso Marco Antonio.
Gravemente malato, Sulpicio decise comunque di partire, per dovere verso la Repubblica. Morì lungo il viaggio, vicino all’accampamento di Antonio, prima di poter consegnare il messaggio del Senato.
Cicerone prese allora la parola, con un tono insieme politico e profondamente umano, chiedendo che gli fosse dedicata una statua sui Rostri e un sepolcro pubblico. Lo fece con parole di altissima forza morale, tra le più commoventi della letteratura latina. Fa un appello al Senato che dà il senso al giusto modo di omaggiare e onorare la memoria.
Rendetegli, dunque, o senatori, la vita che gli avete tolta.
La vita dei morti è nella memoria che di essi conservano i vivi.
Fate dunque che colui che involontariamente avete inviato alla morte,
riceva ora da voi l’immortalità.
In questo passo nasce la celebre frase:
Vita enim mortuorum in memoria est posita vivorum.
La Memoria è un Atto di Volontà, non un Sentimento
La frase di Cicerone è rivoluzionaria perché capovolge il concetto comune di memoria.
Vita enim mortuorum in memoria est posita vivorum.
La parola chiave è “posita” (riposta, collocata). Non è “la vita fluttua nel ricordo”, ma “è collocata”. È un atto deliberato, un’azione. Non è un sentimento passivo che capita di provare; è una scelta attiva.
La vita dei morti non continua da sola. Continua perché i vivi le offrono uno spazio, un santuario: la loro memoria. Si diventa i custodi della loro esistenza.
Questo investe i vivi di una responsabilità incredibile. Se si dimentica, se si smette di “riporre” attivamente quella vita, essa svanisce. La vera morte, suggerisce Cicerone, non è il decesso fisico, ma l’oblio. È essere dimenticati.
Onorare la Virtù, Non Commiserare la Perdita
Ed è qui che Cicerone insegna il “come” ricordare. Nel suo discorso per Sulpicio Rufo, l’oratore non si concentra sull’errore del Senato, sulla malattia o sull’ingiustizia di quella morte.
Cicerone rifiuta la commiserazione. Non chiede una statua come “risarcimento” per una tragedia. Chiede una statua per celebrare la virtù.
Chiede di onorare Sulpicio perché, nonostante la malattia, scelse il dovere. Perché la sua vita fu un esempio di dedizione alla Repubblica. Cicerone insegna che la memoria non deve essere un lamento sull’assenza, ma un’acclamazione di ciò che quelle persone sono state.
È necessario “tirare fuori gli aspetti migliori della loro memoria”. Si devono ricordare e onorare le loro scelte, il loro coraggio, la loro gentilezza, la loro integrità. Si deve celebrare la qualità della vita che hanno vissuto, non solo piangere il fatto che sia finita.
L’Omaggio a chi va al Cimitero: Custodi della Virtù
Oggi, nell’era dell’archivio digitale, la memoria di Cicerone è un atto di resistenza. È coltivazione, non archiviazione. E coloro che si recano nei cimiteri sono i moderni “senatori” di Cicerone. Stanno compiendo lo stesso atto pubblico.
Ma il loro gesto, letto attraverso la giusta lente, è ancora più profondo. Non si recano al cimitero per commiserare i loro morti o per piangere sulla sfortuna. Ci vanno per onorare la loro virtù.
Ci vanno per dire al mondo: “Quest’uomo era un lavoratore instancabile”. “Questa donna era la persona più gentile mai conosciuta”. “Questo nonno ha insegnato il rigore”.
Il viaggio verso il cimitero è il “decreto” pubblico che afferma il loro valore. Il fiore posato sulla tomba, il lumino acceso, non sono un simbolo di tristezza. Sono la “statua” che Cicerone chiedeva. Sono il simbolo visibile che afferma: “La tua vita è stata degna e io sono qui per celebrarla, non per piangerla”.
È un gesto che trasforma il lutto in gratitudine.
Cosa stimola a fare (che non si fa più)
Infine, la frase di Cicerone scuote e chiede di fare qualcosa che spesso si è smesso di fare: raccontare nel modo giusto.
Si è smesso di essere i narratori delle loro virtù.
Quando si ricorda chi si è amato, si è spesso sopraffatti dal dolore della perdita. Marco Tullio Cicerone chiede di fare uno scatto in avanti. Stimola a pronunciare il loro nome non con tristezza, ma con orgoglio. Spinge a raccontare le loro storie, concentrandosi su ciò che li ha resi grandi: un atto di generosità, un momento di coraggio, la loro etica del lavoro, il modo in cui amavano. L’invito che arriva da Cicerone è non commiserare, ma imitare. Il modo più alto di “riporre” la loro vita nella propria è vivere secondo i loro migliori esempi.
Il 2 novembre non è solo il giorno per portare un fiore su una tomba. È il giorno che ricorda che, per i restanti 364 giorni dell’anno, si ha un compito molto importante. Essere la biblioteca vivente non delle loro tragedie, ma della loro grandezza.
Sono i vivi la loro immortalità. E questa immortalità deve essere degna di loro.