Una frase da Il Fu Mattia Pascal svela il dramma dell’identità mediata della nostra epoca

8 Agosto 2025

Scopri come una celebre frase da Il fu Mattia Pascal di Pirandello svela la crisi dell’identità e la solitudine dell’uomo contemporaneo.

Una frase da Il Fu Mattia Pascal svela il dramma dell'identità mediata della nostra epoca

Una frase da Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello offre una riflessione molto attuale sul concetto di identità mediata ovvero quella costruita o filtrata attraverso una maschera, un artificio o un alter ego, spesso nel tentativo di ricominciare, di sfuggire a una realtà insoddisfacente o di reinventarsi.

«Nessuno. Siamo io e l’ombra mia, su la terra. Me la son portata a spasso, quest’ombra, di qua e di là continuamente, e non mi son mai fermato tanto, finora, in un luogo, da potervi contrarre un’amicizia duratura.»

Questa frase è tratta dal capitolo XI Di sera, guardando il fiume del celebre romanzo Il fu Mattia Pascal di Luigi Piranedello che apparve a puntate sulla rivista Nuova Antologia nel 1904 e che diventò un libro nello stesso anno. L’opera fu il primo grande successo dell’autore siciliano, Premio Nobel per la letteratura l’8 novembre del 1934.

La frase da Il Fu Mattia Pascal svela la crisi dell’identità di quest’epoca

All’interno del capitolo XI del libro, Luigi Pirandello fa emergere uno dei momenti più riflessivi e struggenti della storia. A pronunciare la frase è Adriano Meis, ovvero l’identità fittizia assunta da Mattia Pascal, dopo aver finto la propria morte.

Il contesto della frase

Ci troviamo a Roma, in una fase in cui egli dovrebbe godere della tanto agognata libertà: una nuova città, una nuova esistenza, senza legami col passato. Ma è proprio in questo contesto apparentemente sereno che riaffiorano, con prepotenza, le crepe della sua finzione.

Nonostante la fuga dalla propria vita precedente, l’incontro quotidiano con due figure femminili, Adriana e la signorina Caporale, coinquiline nella pensione dove alloggia, lo costringe a confrontarsi con la parte più fragile e irrisolta di sé. Meis deve dare giustificazioni riguardo a quella che non può più essere riconosciuta da nessuno.

Il dialogo con le due donne, tenero e ironico, ma anche carico di sottintesi, finisce per smascherare il suo disagio. Adriano Meis appare sempre più come un uomo “sospeso”, incapace di rispondere alle domande più semplici sul proprio passato, prigioniero della sua maschera.

All’incalzare delle domande, sul perché non riceva lettere, sul motivo per cui non porta i baffi, sulla sua vita prima dell’arrivo,  Meis comprende che non potrà mai stringere legami veri, perché ogni legame si fonda su una verità condivisa. E allora ecco che si trova a pronunciare le parole che riassumono tutto il suo dramma. Un’ammissione amara e poetica, che sembra far emergere che non esiste libertà senza identità, e non esiste identità se nessuno può riconoscerci.

La solitudine interiore di chi perde la propria identità

Nella frase di Luigi Pirandello c’è tutto il senso di separazione e isolamento che spesso l’autore siciliano mette in scena nelle sue opere. Il protagonista non si sente parte di una comunità, non ha relazioni profonde, né amici. Esiste solo con la propria ombra, doppio che lo accompagna ma non lo consola. L’ombra è simbolo della parte più inconscia, inafferrabile, speculare di sé.

L’ombra come simbolo dell’identità mediata

L’ombra diventa il simbolo della sua presenza evanescente, riflessa, inconsistente agli occhi degli altri. Un’identità che cammina al suo fianco, ma che non può parlare, non può amare, non può affermarsi nel mondo reale.

Nessuno. Siamo io e l’ombra mia, su la terra.

Adriano Meis non si riferisce soltanto alla propria solitudine fisica, ma alla condizione esistenziale di chi non può più definirsi con certezza.

Me la son portata a spasso, quest’ombra, di qua e di là continuamente…

L’immagine dell’ombra come unica compagna di viaggio è una potente metafora della condizione esistenziale di Meis. Non è solo una figura retorica, ma una verità concreta: l’unico legame rimasto è con sé stesso, o meglio, con la parte più evanescente di sé, l’ombra, che lo segue senza offrirgli alcun conforto.

Il protagonista ha reciso ogni radice: la famiglia, il lavoro, il nome. Ha ottenuto una libertà apparente, ma ha perso la possibilità di vivere pienamente, di amare, di essere riconosciuto. È un uomo “libero” ma invisibile agli occhi della società, escluso da qualsiasi forma di relazione autentica. Per questo, nonostante il continuo vagare, non riesce a fermarsi abbastanza a lungo da stringere un’amicizia, da costruire un legame che duri.

Pirandello mette in scena il dramma dell’identità moderna, dove l’io non è più stabile, ma si frantuma in maschere e ruoli. Mattia Pascal o Adriano Melis sono lo stesso uomo che ha tentato di fuggire dalle costrizioni sociali, ma ha finito per perdere sé stesso. E l’ombra  simbolo di un’esistenza che c’è, ma non si vede diventa l’emblema perfetto di questa tragedia silenziosa.

non mi son mai fermato tanto, finora, in un luogo, da potervi contrarre un’amicizia duratura.

Emerge con forza il dramma dell’instabilità. Il protagonista è costretto a crearsi alibi rispetto alla sua condizione. Non ha mai avuto il tempo o il coraggio di fermarsi, di radicarsi, di costruire relazioni profonde, non sono il vero oggetto del problema. È la sua fuga identitaria che lo costringe alla solitudine. Il protagonista del romanzo ha fatto una scelta e da quel momento è entrato in un tunnel dal quale non può più uscire.  L’amicizia, che presuppone fiducia, costanza, reciprocità, è negata dalla condizione errante dell’io. La sua identità deve rimanere celata perché così impongono le condizioni sociali e le scelte fatte.

L’identità mediata come condizione dell’uomo contemporaneo

La vicenda di Adriano Meis, così come la tratteggia Luigi Pirandello, non è soltanto un dramma individuale confinato all’inizio del Novecento. Dal punto di vista sociologico è un modello narrativo universale, capace di parlare con estrema chiarezza anche alla nostra epoca.

L’identità mediata, ovvero quella costruita, filtrata, alterata da maschere, artifici o ruoli, non è più soltanto il frutto di una scelta estrema, come fingere la propria morte per ricominciare. Oggi, è una condizione diffusa, spesso inconsapevole.

Viviamo in un mondo in cui il sé viene continuamente modellato e “messo in scena”. Si costruiscono identità diverse pronte ad essere plasmate in base ai contesti in cui si agisce: nei social media, nelle relazioni professionali, perfino nella vita privata. Si costruiscono profili accuratamente selezionati, narrazioni personali funzionali al contesto, immagini che ci rappresentano più come vorremmo essere visti che come siamo.
Questa operazione può dare vantaggi, opportunità, perfino una sensazione di controllo. Ma, come accade a Mattia Pascal, può anche allontanare da sé stessi e dagli altri.

Pirandello ricorda che senza un riconoscimento reciproco, non c’è vera identità. La libertà non basta se non è ancorata alla possibilità di essere visti e accettati per ciò che si è. Un sé mediato, continuamente filtrato o reinventato, rischia di diventare un sé svuotato, che cammina accanto a noi come un’ombra: presente, ma inafferrabile; visibile, ma privo di voce.

Questa frase di Mattia Pascal mette in evidenza una verità scomoda ma necessaria. Quando l’identità diventa una finzione permanente, l’esistenza si trasforma in un perenne esilio.

Il prezzo di una libertà apparente, ottenuta sacrificando la verità su chi si  è realmente,  ha come conseguenza la solitudine radicale. E se prima questa condizione poteva sembrare eccezionale, oggi in un mondo di identità liquide e profili multipli rischia di diventare la norma.

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