L’autore del libro fotografico “In rosso” parla del suo reportage, nel quale racconta la sua città, Napoli, da un punto di vista diverso dal solito, e commenta il momento attuale della fotografia italiana, parlando del digitale e degli artisti contemporanei
MILANO – “Bisogna sempre seguire quello che si vuole raccontare, non bisogna mai cercare la foto perfetta o la tecnica migliore per realizzarla”. E’ quanto affermato da Umberto Mancini, fotografo napoletano e collaboratore per il gruppo editoriale Finegil. Mancini è autore del libro “In rosso”, un viaggio nel corpo di Napoli attraverso 89 foto a colori, accompagnate da 3 racconti. Diviso in 3 capitoli, il libro segmenta il percorso visivo e narrativo in icone, luoghi e persone, superando i luoghi comuni che da sempre accompagnano Napoli e ridisegnando una città sempre diversa, ma sempre uguale a se stessa. Mancini parla del suo reportage e commenta il momento attuale della fotografia italiana, parlando di digitale e degli artisti contemporanei.
Da cosa nasce l’idea di questo suo libro?
L’idea nasce dalla voglia di dare una visione diversa della mia città, o meglio di farla vedere sotto una luce diversa e più personale. Da napoletano sono consapevole del fatto che non esiste solo quello che si vede in tv o nei media. Non rinnego assolutamente la realtà delle cose, ma credo sia fondamentale dare sempre una visione attraverso un altro occhio per stimolare uno spirito critico.
Come ha voluto rappresentare Napoli nel suo reportage?
L’idea di fondo è stata di usare il colore rosso come collante alle immagini. Il rosso è il colore che meglio rappresenta il mio territorio: Rosso è il sangue di San Gennaro, Rosso è il colore della lava del vulcano, Rosso è il colore della passione. Non volevo fotografare vicoli, panni stesi ed altre situazioni tipiche e già viste attraverso le immagini di altri fotografi. Non ho voluto neanche rappresentare le bellezze architettoniche della città. Mi interessava far vedere che esiste sempre un altro punto di vista soprattutto se parliamo di qualcosa di già visto.
Ci spiega qual è il suo approccio ad un reportage fotografico?
Il reportage, almeno nell’accezione comune, non è nelle mie corde come tipologia di lavoro. Ho scelto di raccontare la mia città cercando di scovare dettagli, scorci e situazioni che sono sotto gli occhi di tutti ma che la maggior parte delle persone (talvolta me compreso) non vede subito, cerco sempre storie o idee da raccontare e uso la macchina fotografica per farlo. E’ la mia biro, ed uso quello che mi circonda per mettere su carta i miei pensieri, le mie idee.
Come si è evoluta la sua concezione fotografica nel corso degli anni?
Quello che ho imparato in fotografia e che so sull’argomento, l’ho imparato fotografando e leggendo molti libri di fotografia e di fotografi. Ho imparato che bisogna sempre seguire quello che si vuole raccontare, non bisogna mai cercare la foto perfetta o la tecnica migliore per realizzarla. E’ importante riuscire a raccontare quello che si vuole rappresentare. Personalmente amo quei fotografi dove la tecnica ha un valore secondario, ma riescono a trasmettere emozioni e sensazioni scattando foto “scritte con la luce”. Penso a Giacomelli, a Robert Frank o Nan Goldin. Questi sono i fotografi che amo perché, secondo il mio punto di vista, hanno usato la macchina fotografica senza pensare di fare una bella foto, ma riuscendo a fermare nell’immagine di un istante ciò “che sentivano in quel momento”. Quando vedo le loro foto questo lo “leggo” perfettamente.
Cosa ne pensa delle tecniche digitali applicate oggi alla fotografia?
Personalmente non sono un detrattore del digitale. Usavo una Nikon FE (analogica) a 14 anni. Uso una Nikon D2X (digitale) adesso. In ogni caso sempre una reflex. Non penso al fatto che sia digitale o analogica. Mi interessa fotografare e basta. Molte cose le realizzo con le polaroid e seguo con grande interesse l’avventura di THE IMPOSSIBLE PROJECT.
Crede che in Italia si possa parlare di una scuola fotografica, alla quale possano far riferimento i giovani che si approcciano alla professione?
Non credo che, in questo preciso momento, esista una scuola italiana. Esistono molti fotografi italiani conosciuti a livello internazionale, bravissimi e riconosciuti come maestri della fotografia. Ognuno ha un proprio stile ed una propria cifra stilistica, un marchio di fabbrica riconoscibile che rende il loro lavoro unico ed originale. Penso, ad esempio, ai mosaici di Maurizio Galimberti. Credo che se si vuole entrare nel mondo professionale, è sicuramente importante una buona conoscenza tecnica, ma è importante sempre riuscire a distinguersi, a dare una personale impronta a quello che si fotografa. Questo è un concetto cui tengo molto e su cui insisto perché oggi spesso non è così. Le nuove generazioni realizzano ottime foto, scatti tecnicamente perfetti ma pochissimi riescono ad imprimere il loro stile. L’avvento di internet e del digitale, ha generato un notevole fenomeno di emulazione. Non basta essere al posto giusto al momento giusto, quando guardo una foto vorrei riconoscere anche il fotografo che l’ha scattata. Anche questo conta nella professione: essere riconoscibili. Tra i più giovani personalmente amo molto Paolo Pellegrin, Davide Monteleone e Sirio Magnabosco. Vedo le loro foto e riconosco il loro lavoro. Probabilmente ce ne sono molti altri altrettanto validi che però non conosco, e questo mi spinge ad una nuova ricerca di nuovi talenti dallo stile unico e personale perché solo così, guardando i loro lavori, si continua ad imparare.
15 gennaio 2013