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Nino Migliori, ”Mi racconto attraverso i miei scatti, componendoli come parole di una poesia”

Uno tra i principali fotografi italiani del dopoguerra spiega il valore della fotografia come forma d’arte e parla della situazione che questa vive in Italia

MILANO – Attraverso la fotografia ci si impossessa di frammenti di realtà, si coglie il mondo nella sua molteplicità e, componendo le immagini, si dà voce al proprio punto di vista. Questo è la fotografia per Nino Migliori, uno dei più grandi fotografi italiani del secondo dopoguerra: il linguaggio a lui più congeniale per esprimersi, come le parole lo sono per lo scrittore. L’artista ci parla del suo lavoro e della situazione della fotografia in Italia, dove finalmente questa forma espressiva sta iniziando ad avere la giusta valorizzazione.

 

Come nasce la sua passione per la fotografia?

 

 

Inizio a fotografare nel 1948 con una Retinette della Kodak. La fine del conflitto ha significato la meravigliosa possibilità di riappropriarsi del proprio modo di essere e del mondo. Prima si viveva con un profondo senso di precarietà. Il quotidiano era scandito dal suono delle sirene degli allarmi, limitato dai lacci imposti dalle restrizioni di movimento, angosciato dai rastrellamenti, costretto nel recinto del coprifuoco. Si andava a scuola, ma all’improvviso si sentiva l’urlo della sirena e allora si scappava e ci si nascondeva in un rifugio. Oggi il tuo compagno era seduto nel banco di fianco a te e domani venivi a sapere che era rimasto sotto un bombardamento. Non era una vita di relazioni ma solo di frequentazioni.
La Liberazione è stata quasi come una rinascita, la gioia di riscoprire il mondo, cioè riprendersi l’esistenza. Finalmente si poteva vivere assaporando il significato di libertà, libertà di movimento, libertà di espressione e di conseguenza il desiderio di poter guardare e afferrare la vita. E cosa c’era di più adatto della fotografia? Inquadravo e mi impossessavo di un frammento di mondo. Mi piaceva entrare nell’esistenza che pulsava e la volevo cogliere nella sua molteplicità, nella varietà in cui si manifestava. I soggetti quindi erano i più disparati: il paesaggio, la natura, le foto ricordo legate ai riti famigliari e collettivi e soprattutto la gente, non solo riprendevo direttamente le situazioni e le persone ed entravo in contatto con loro, ma lo facevo anche in modo mediato attraverso i loro gesti e sentimenti, così ho cominciato a fotografare anche i muri.

 

Come intende lei l’arte fotografica?

 

 

La fotografia è un’arte visuale, per cui necessariamente è legata alla storia dell’arte, ma ritengo che soprattutto sia linguaggio, racconto. Questo è il modo a me congeniale per comunicare. Con la fotografia si manifestano idee, opinioni, si narra il proprio punto di vista, si prende posizione e come lo scrittore si esprime attraverso le parole utilizzando la penna piuttosto che la tastiera di un computer, il fotografo usa gli strumenti del mezzo. Col tempo ho radicalizzato questa opinione, quindi penso che il significato e l’importanza di un lavoro sia dato dall’insieme delle fotografie che lo compongono al di là della singola bella immagine, che ovviamente ha un suo valore. Non è certamente il numero che importa, ma la forza data dal loro comporsi; spesso, sempre per fare un paragone con la letteratura, mi piace citare un vero capolavoro poetico come M’illumino d’immenso costruito solo con 4 parole comuni, ma in questa sequenza sono così intense da squarciare infiniti mondi di sensazioni.

 

Cosa ha la fotografia di unico rispetto ad altre arti figurative?

 

 

Prima di tutto, e banalmente, è il suo essere fatta di luce. Poi a pensarci, forse così banale non è, specialmente dopo l’avvento del digitale. C’è chi pensa che non si facciano più fotografie, ma “immagini” solo perché codificate in codice binario e mancanti di quell’ aspetto, che definirei romantico, del supporto tangibile e del processo “alchemico” che avviene in camera oscura. Ma analogico contro digitale è un argomento così vasto che non si può affrontare in questa occasione.
In seconda istanza poi, come comunemente le viene attribuito come peculiarità, la fotografia è impronta, è un prelievo dalla realtà, è un frammento dell’esistente scelto e interpretato dal fotografo.

 

Secondo lei l’arte della fotografia è abbastanza valorizzata in Italia?

 

 

In questi ultimi anni si sono fatti notevoli passi in avanti da ogni punto di vista.
Prima di tutto riguardo la collocazione e la considerazione che ha acquisito. Molti autori si esprimono utilizzando la fotografia, che perciò da una posizione minoritaria è assurta a pieno diritto a linguaggio artistico.
Non solo sono aumentate le mostre specifiche, ma ormai fotografie sono esposte a fianco di dipinti, di sculture, di installazioni in importanti rassegne presentate in prestigiosi spazi espositivi.
Il collezionismo sta allargandosi ed evolvendo e si cominciano a vedere collezioni tematiche, il che significa una ricerca che supera la fase della semplice “ bella immagine”. Sono in aumento le aste dedicate solo alla fotografia facendo riscontrare alte percentuali di vendita.
Nelle Università e nelle Accademie sono stati attivati corsi di specialistica e masters. L’editoria sta producendo non solo bei foto-libri o cataloghi, ma anche la saggistica, che era molto deficitaria, comincia ad arricchirsi di nuove collane e titoli.
Si, penso che la strada da percorrere sia ancora lunga, ma le prospettive sono decisamente positive.

 

A quali sue mostre è più affezionato?

 

 

Ogni mostra è un regalo, un’emozione, una soddisfazione, significa il riconoscimento del proprio lavoro e delle proprie idee per cui mi riesce difficile fare una graduatoria. Forse banalmente posso dire che il legame è più intenso nei confronti della mostra che si sta preparando perché le scelte, le decisioni che si effettuano nell’inserire o nell’escludere i singoli lavori risvegliano ancora i sentimenti che sono entrati in gioco quando li avevo realizzati.

 

31 luglio 2012

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