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Il valore simbolico della fotografia nel lavoro di Antonio Biasiucci

La materia nel continuo perpetuarsi della vita e della morte che si alternano è protagonista dell'esposizione fotografica ''Tre Terzi'', dedicata a uno dei più interessanti artisti contemporanea, Antonio Biasiucci...
Ultima settimana per visitare “Tre terzi”, esposizione fotografica di Antonio Biasiucci allestita nelle splendide sale del romano Palazzo Poli
 

MILANO – La materia nel continuo perpetuarsi della vita e della morte che si alternano è protagonista dell’esposizione fotografica “Tre Terzi”, dedicata a uno dei più interessanti artisti contemporanea, Antonio Biasiucci. La mostra, allestita dall’Istituto Nazionale per la Grafica nelle sale di Palazzo Poli, a Roma, sarà visitabile fino al 17 febbraio 2013. Il fotografo ci presenta l’esposizione e riflette sul significato della sua arte.

In che modo la mostra a lei dedicata e strutturata attraverso la tripartizione di Sacrificio, Tumulto e Costellazioni, riassume e celebra il suo percorso artistico?
“Tre terzi” è stata interamente pensata per gli spazi dell’Istituto Nazionale della Grafica. Non si tratta di un’antologica: ho attinto da trent’anni di fotografie andando a scegliere gli argomenti adatti per allestire le tre grandi stanze di Palazzo Poli. La prima stanza è dedicata al tema del Sacrificio e comprende due serie di fotografie: la prima, del 1983, ritrae il rito dell’uccisione del maiale, che nella vita contadina ha un significato ben preciso – la morte dell’animale vuol dire sopravvivenza per il contadino che l’ha cresciuto; queste fotografie convivono con una seconda serie di immagini che ritraggono invece donne gravide o donne con bambini appena nati – in tutte le stanze combino infatti vita e morte. La seconda stanza, quella del Tumulto, ospita una serie di scatti legata agli elementi primordiali, intitolata “Magma”, e una serie che riprende un lavoro degli anni Novanta sulla catastrofe intitolato “Res. Lo stato delle cose”. Anche qui si ha la sensazione di questo continuo perpetuarsi della vita e della morte che si alternano. La terza stanza è invece quella delle Costellazioni: qui ci sono delle fotografie – un polittico di ventotto immagini – di forme di pane che subiscono una trasfigurazione in placente, meteoriti, pianeti – sono delle epifanie di vita; parto dal presupposto che per fare il pane sono necessari terra, aria, acqua e fuoco, per cui lo innalzo a soggetto essenziale per parlare della nascita e della creazione. Al polittico del pane si contrappone un’installazione dal titolo “Camera oscura”, dove ci sono dei volti di persone dormienti: quando si entra nella stanza all’inizio è tutto buio, poi, quando ci si abitua alla penombra, si vedono gravitare questi volti nel nero.

Che valore ha per lei la fotografia, qual è l’uso che fa di questo linguaggio?

La mia fotografia non ha niente a che vedere con la documentazione della realtà, i miei soggetti sono metafore. Il mio uso è legato sicuramente a una necessità interiore. Io estremizzo anzi questo concetto di fotografia, utilizzando spesso delle forme installative dove l’atto fotografico non è esplicito, come nella “Camera oscura” di cui parlavo prima. Lavoro molto sulla sensazione. In questa stanza ho utilizzato anche delle lastre che appartenevano a mio padre, che ho appoggiato su un tavolo dal lato dell’emissione, mettendo in evidenza tutti i ritocchi che lui faceva a mano ai volti delle persone per togliere le rughe e le imperfezioni dei visi. Da questi spuntano fuori nuovi volti, molto pittorici, appena accennati: il risultato ha più a che vedere con un’emozione piuttosto che con un aspetto strettamente fotografico. La fotografia per me è un mezzo per esprimermi, ha un valore fortemente simbolico.

Quali sono i fotografi a cui si ispira, ha dei modelli?

Io considero mio unico maestro un regista di teatro d’avanguardia, Antonio Neiwiller: l’ho conosciuto qui a Napoli, dove vivo, ho amato i suoi spettacoli e ho avuto modo di lavorare insieme a lui. Io ho appreso il suo metodo teatrale e lo applico a ogni soggetto che fotografo, metodo che consiste nella ripetizione della stessa fotografia per un lungo lasso di tempo – esattamente come lui faceva ripetere ai suoi attori la stessa scena – di modo che diventi sempre più scarna, sempre più essenziale.

Come è cambiata secondo lei la fotografia dopo l’avvento del digitale?
Con il digitale sono diventate sempre più numerose le immagini e le fotografie che ci circondano. Io non ho nessun pregiudizio rispetto a questa forma: se il digitale serve a esprimere se stessi va benissimo. L’essenziale è che dietro la fotografia ci sia una necessità vera di tradurre in immagini qualcosa che si vuole comunicare.

Ritiene che in Italia, rispetto alla situazione europea, ci siano strutture adeguate per la formazione a questa forma d’arte e per la sua diffusione?
Ormai anche in Italia si parla moltissimo di fotografia: è uno strumento tenuto in altissima considerazione dall’arte contemporanea. Ci sono sempre più spazi dedicati alla fotografia nei musei. Il problema è che diventa difficile inserirla in un contesto a sé stante.
Quanto alle scuole il discorso è complicato, con il termine “fotografia” si comprende un campo vastissimo, il lavoro fotografico può prendere infinite direzioni diverse. Se si vuole diventare professionisti è giusto frequentare una scuola, ma non è detto che questo sia sufficiente a diventare un artista. Esistono diverse forme di fotografia: quella di moda, quella pubblicitaria, quella artistica. È complicatissimo pensare a una scuola in grado di mettere insieme gli insegnamenti indispensabili ad acquisire tutte queste competenze. Una scuola può insegnare solo la competenza tecnica, poi per saper usare la fotografia come mezzo espressivo ci vuole dell’altro.

12 febbraio 2013

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