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Giancarlo Ceraudo, ”La mia fotografia è nata spontaneamente dalla necessità di raccontarmi e raccontare”

Quello tra Giancarlo Ceraudo e la fotografia non è stato affatto un colpo di fulmine. Nata per rispondere alla necessità di raccontare e documentare, la fotografia di Ceraudo si è formata attraverso le esperienze di viaggio, per poi concretizzarsi in progetti di più ampio respiro...
In quest’intervista Giancarlo Ceraudo si racconta, attraverso la passione per l’America latina, dove hanno preso vita alcuni dei suoi più importanti reportage, uno fra tutti “Destino final”, divenuto poi un’importante inchiesta sui voli della morte della dittatura argentina

MILANO – Quello tra Giancarlo Ceraudo e la fotografia non è stato affatto un colpo di fulmine. Nata per rispondere alla necessità di raccontare e documentare, la fotografia di Ceraudo si è formata attraverso le esperienze di viaggio, per poi concretizzarsi in progetti di più ampio respiro sulla situazione sociale, economica e culturale di molti Paesi, uno su tutti l’America latina. In quest’intervista uno dei volti più importanti della fotografia italiana nel mondo racconta di sé e del suo lavoro d’inchiesta, svelandoci in che modo hanno preso vita alcuni dei suoi reportage più importanti, uno su tutti “Destino final”, dapprima lavoro sulla memoria nei luoghi della dittatura in Argentina, trasformatosi poi in vera e propria inchiesta giudiziaria di rilevanza internazionale, che ha permesso il recupero di tre degli aerei che venivano utilizzati per i voli della morte.

Come è nata la sua passione per la fotografia e quando ha capito che il fotogiornalismo era la sua strada?
Quella per la fotografia non è stata una passione improvvisa. Quando ero ragazzo ricordo che nella mia compagnia, durante i viaggi con gli amici, ero sempre quello senza macchina fotografica. Non è stato quindi un colpo di fulmine. Crescendo semplicemente ho cercato di capire cosa volessi fare da grande; ero incredibilmente pigro, ma amavo viaggiare e avevo uno spiccato senso estetico. Verso i 27, 28 anni decisi quindi di raccontarmi e di raccontare: presi in mano la macchina fotografica e notai che alla fine non ero poi così male. L’alternativa penso che sarebbe stata la scrittura.

Durante la sua carriera si è occupato di inchieste molto importanti, percorrendo paesi come Argentina, Cile, Bolivia, Brasile, Cuba, Paraguay e Uruguay. La sua area di azione è quindi l’America del Sud. In che modo ha deciso di raccontarlo? Quali sono gli aspetti di questo territorio che ha voluto approfondire all’interno delle sue fotografie?
Sì, quando ho deciso di occuparmi di questo Paese l’ho fatto per un interesse mio personale, di indagine. La mia curiosità nei confronti dell’America latina era nata ancor prima che diventassi fotografo, con un viaggio a Cuba, Paese di cui mi sono poi occupato approfonditamente e che sto ritraendo tuttora. All’inizio ho deciso di stabilire la mia base lavorativa in Argentina, uno stato che a mio parere presenta una spinta incredibile verso l’ovest: è quasi come se fosse un’appendice dell’Italia, anche se negli ultimi anni sta crescendo e la nuova generazione di giovani ne sta mutando radicalmente il volto. Il mio modo di raccontare questi territori rispecchia quello che sono e gli aspetti che più mi attraggono. Sono sempre stato affascinato dal concetto di frontiera, dai luoghi di confine, che, proprio per il fatto di essere situati ai margini, danno l’idea di essere caratterizzati da una libertà assoluta. Penso che l’America latina intera sia di per sé un luogo di frontiera, per la forte immigrazione, per l’alto tasso di violenza, per i segni indelebili lasciati dalla dittatura, ma anche per il suo paesaggio così variegato, sul quale ho potuto trovare anche quelle culture antiche e ancestrali che avevo conosciuto durante i miei studi di Antropologia.

Da quale idea e con quali propositi è nato il progetto “Destino final”? In che modo è avvenuto il passaggio da reportage a importante inchiesta giudiziaria di rilevanza internazionale?
Mi trovavo in Argentina per occuparmi della situazione politico-economica; avevo deciso di stanziare lì la mia base operativa per una serie di conoscenze – lavorative e personali – che facevano di questo luogo il punto ideale per organizzare le mie inchieste. Sapevo che vivere in Argentina significava fare i conti con un aspetto indelebile della sua storia, la dittatura, ed ero restio, soprattutto perché ritenevo che fosse davvero difficile raccontare la memoria di un Paese che non era il mio e che non mi apparteneva. Come fotografo decisi però di iniziare a documentarmi attraverso libri e film, uno su tutti “Garage Olimpo” di Marco Bechis, con l’intenzione precisa di ritrarre i luoghi della dittatura, che sentivo pieni di ricordi, impregnati di storia. Il rapporto però personale con i testimoni mi fece capire che dovevo modificare il mio progetto iniziale per dare vita ad un lavoro più approfondito. La questione dei voli della morte aveva da sempre avuto una grandissima risonanza in Argentina, ma anche a livello internazionale, probabilmente perché a livello giudiziario era ancora in sospeso: non a caso ne dava risalto anche il film di Bechis. Fu proprio a tal proposito che chiesi a me stesso: “Per quale motivo non si cercano gli aerei?”. Fu una domanda che scaturì quasi spontaneamente. Naturalmente mi serviva l’aiuto di qualcuno più esperto di me e fu qui che entrò in gioco la giornalista Miriam Lewin (vittima della dittatura, sequestrata e reclusa all’Esma, la scuola militare della Marina), grazie alla quale oltre ad un buono lavoro fotografico è stato possibile contribuire ad un percorso di giustizia importante. Io però non credo di essere stato determinante in questo; le cose non accadono per caso, ma in tempi ben precisi ed era giunto per l’Argentina il momento per capire. C’è un tempo in cui la verità si rivela, indipendentemente dai suoi protagonisti.

Posso chiederle di parlarci dell’inchiesta “Cruz del sur – Terra del fuoco”?
“Cruz del sur” è un progetto che ritrae principalmente i territori della Patagonia e dell’Argentina e rispecchia quello che anticipavo prima, ovvero la mia attrazione nei confronti delle terre di confine, quelle ai margini, quelle percorse da anarchici e rivoluzionari. Ad oggi non ha ancora trovato una conclusione, perché è un progetto scaturito dai miei viaggi personali; il tutto ha infatti avuto inizio nel 1993, durante uno dei miei viaggi giovanili nei quali lasciavo usare agli altri la macchina fotografica; ciò che vidi fu un luogo a dir poco inospitale, ma che allo stesso tempo mi esaltava per le sue meraviglie e per il senso di libertà geografica che trasmetteva. E’ poi proseguito con altri viaggi, ciascuno dei quali ha prodotto dei reportage diversi, sia per i soggetti su cui orientavo il mio interesse, sia per le circostante del viaggio stesso. Solo l’ultima parte presenta un aspetto più preciso e riconoscibile ed è infatti confluita in un lavoro giornalistico per l’Espresso sull’Enel in Cile.

Guardando le immagini di “Destino final” e di “Terra del fuoco” è possibile notare una caratteristica ricorrente: la scelta del bianco e nero. Perché questa scelta? E in che modo influisce sulla resa dell’immagine?
In realtà non c’è mai una risposta sola a questo tipo di domande, perché la fotografia non ha sempre una spiegazione: molte volte, se la resa è soddisfacente, non ci si chiede il perché. Tecnicamente potrei rispondere che il bianco e nero ha la capacità di decontestualizzare e scorporare la forma, ma si tratterebbe solo di una spiegazione oggettiva. In realtà da sempre per me è una scelta che rispecchia quello che sento, la mia intimità riguardo ad un determinato scatto.

A fronte della sua esperienza, c’è un consiglio che vorrebbe dare ai giovani che vogliono intraprendere questo lavoro?
Non credo ci sia un consiglio solo e neppure delle massime da seguire. La grande diffusione che negli ultimi anni ha avuto la fotografia aumenta sicuramente il gradimento del pubblico e il gruppo di chi la pratica, ma resta il grave problema della crisi editoriale. Tenendo in considerazione la sua ampia diffusione, è necessario fare una radicale selezione del proprio lavoro, esaminarlo in maniera autocritica, imparare a capire il proprio talento, e in alcuni casi capire addirittura se questo talento c’è. Per il proprio percorso di crescita quindi credo che sia necessaria un’autenticità nel proprio lavoro, che con l’esperienza si deve trasformare in autorialità, il tutto accompagnato da un’autocritica, che sia però seria e profonda.

2 novembre 2012

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