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Frederik Buyckx, ”Per un buon reportage bisogna stabilire un legame con il proprio soggetto”

Un reportage deve saper raccontare una storia, deve saper insegnare davvero qualcosa a chi lo guarda della realtà documentata. E per ottenere questo risultato bisogna dedicare tempo al proprio soggetto, entrare con questo in connessione. Ne è convinto Frederik Buyckx, reporter belga che ha ricevuto quest'anno una menzione d'onore al World Press Photo...
Il fotoreporter belga ci parla del suo lavoro e del progetto dedicato alle favelas pacificate di Rio de Janeiro per il quale ha ricevuto una menzione d’onore al World Press Photo di quest’anno
MILANO – Un reportage deve saper raccontare una storia, deve saper insegnare davvero qualcosa a chi lo guarda della realtà documentata. E per ottenere questo risultato bisogna dedicare tempo al proprio soggetto, entrare con questo in connessione. Ne è convinto Frederik Buyckx, reporter belga che ha ricevuto quest’anno una menzione d’onore al World Press Photo per il suo progetto “Pacified Favela”, sulle favelas di Rio de Janeiro, per la categoria “Daily Life”. Frederik Buyckx ha studiato fotografia alla Royal Academy of Fine Arts di Ghent, in Belgio, dal 2008 e, tra i suoi vari incarichi, ha lavorato per il National Geographic.
Quali sono i caratteri fondamentali del suo stile fotografico?
Per i miei progetti personali, mi metto in viaggio lasciando sempre che sia il mio istinto a guidarmi, finché a un certo punto qualcosa – un posto, una persona, una situazione – non colpisce la mia attenzione. Cerco allora di esplorare questo aspetto più in profondità. A volte dedico a un soggetto una mezz’ora, mentre sono di passaggio, altre volte mi lascio catturare a tal punto che decido di costruire un reportage più ampio e di fermarmi anche per settimane nello stesso posto, come è capitato con il mio ultimo progetto sulle Favelas a Rio de Janeiro. 
In entrambi i casi, cerco di entrare in contatto con le persone, di stabilire un legame con loro. Quando parto, voglio andarmene portando con me la sensazione di aver davvero fatto esperienza e aver appreso qualcosa di una determinata realtà. 
La mia speranza è di riuscire a far trasparire nelle mie fotografie quella prima impressione avvertita la prima volta vedendo un posto o una persona.
Quali sono per lei le caratteristiche che definiscono un buon reportage?
Un buon reportage deve raccontare una storia, chi guarda deve imparare qualcosa da quelle immagini. È importante avere un soggetto ben definito, essere quanto più possibile vicino al proprio soggetto ed essere disposto a dedicargli del tempo. È molto più facile se ci si concentra su un aspetto verso cui si nutre un reale interesse personale.
Quale apparecchio e quali obiettivi preferisce per il suo lavoro?
Naturalmente dipende dal tipo di progetto cui lavoro, ma per la maggior parte dei miei reportage uso una DSLR [digital single-lens reflex – N.d.R.], in questo momento una Canon Eos 5D Mark II, e un obiettivo fisso 28 mm o 50 mm. Dato che mi piace essere vicino alle persone, non ho bisogno di teleobiettivi più potenti.
Può dare qualche suggerimento tecnico a quei fotografi che vogliono intraprendere la carriera di reporter?
No davvero, non sono un maestro dal punto di vista tecnico della fotografia. Preferisco conoscere molto bene una macchina fotografica e pochi obiettivi e non utilizzare troppe apparecchiature, che rischiano soltanto di distrarre dal soggetto che si sta fotografando. 
L’importante non sono il numero di pixels e gli ultimi aggiornamenti software, l’importante è realizzare una buona fotografia. Non concentrarsi troppo su tutti questi aspetti tecnici è anzi il mio consiglio, anche se naturalmente conoscerli non può far male. 
Ah, se mai intraprenderete la carriera di reporter, sarà fondamentale che abbiate un buon sistema di archiviazione fin dal primo giorno. Io non ce l’avevo, e l’ho rimpianto.
Quali sono le difficoltà del mestiere?
Ce ne sono diverse oggigiorno. Prima di tutto, visto che viviamo nell’era digitale e siamo letteralmente sommersi dalle immagini, è difficile emergere e farsi notare. Ma spero che questo abbia un effetto positivo sulla qualità della fotografia, perché i fotografi sono spinti a essere sempre più competitivi. In secondo luogo, con la crisi attuale è difficile riuscire a guadagnarsi da vivere solo facendo reportage in questo periodo. I giornali pagano poco – quando pagano – e ricevono da ogni parte del mondo richieste da parte di fotografi che vorrebbero lavorare per loro.
Può dirci qualcosa del reportage dedicato alle Favelas pacificate di Rio, per il quale ha ricevuto una menzione d’onore al World Press Photo 2013?
Per questo progetto sono stato a Rio de Janeiro quattro volte, e ogni volta ho preso in affitto una camera in una delle tante favelas pacificate cercando di capire che tipo di vita si conducesse in quelle comunità.
Le favelas, ossia le baraccopoli, di Rio de Janeiro – molte separate dai quartieri ricchi soltanto da una strada – sono state per decadi delle aree “off limits” governate dai signori della droga e dalle milizie dei vigilantes. Con l’avvicinarsi dei mondiali di calcio di Rio del 2014 e delle olimpiadi del 2016, le autorità hanno fatto uno sforzo coordinato per ripulire le favelas. A questo scopo, è stata costituita nel 2009 la Unidade de Polícia Pacificadora (Unità di polizia pacificatrice), o UPP.
Il piano prevede due fronti d’azione. Prima di tutto, le forze di polizia della UPP hanno preso d’assalto le favelas e vi hanno stabilito un presidio. A questo punto sarebbero dovute subentrare le unità sociali della UPP con un’opera di potenziamento delle infrastrutture e dei servizi.
L’operazione è stata un parziale successo. Unità di polizia si sono stabilite in varie comunità – in alcuni casi per la prima volta – con risultati positivi. Ma i critici sostengono che la UPP si sia concentrata solo sulle favelas più vicine alle aree ricche, che la successiva opera di potenziamento dei servizi non sia stata svolta e che una risoluzione del problema delle favelas abbia bisogno di una più ampia azione volta a ridurre la povertà.
6 agosto 2013
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