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Berengo Gardin,”Ho succhiato latte in bianco e nero, non potrei fare altro tipo di fotografia”

Ha fatto la storia della fotografia in Italia. Attraverso i suoi scatti, sempre rigorosamente in bianco e nero per mantenere intatto il significato di ogni immagine, Gianni Berengo Gardin ha raccontato, in veste di ''testimone dell'epoca'', come lui stesso ama definirsi, un'infinità di storie e di dimensioni umane, sempre con semplicità, sentimento ed una giusta dose di lucidità e razionalità...
In occasione dell’inaugurazione della personale a Palazzo Reale, il grande maestro ci racconta la sua passione per la fotografia, la sua fedeltà al bianco e nero e alla pellicola
 
MILANO – Ha fatto la storia della fotografia in Italia. Attraverso i suoi scatti, sempre rigorosamente in bianco e nero per mantenere intatto il significato di ogni immagine, Gianni Berengo Gardin ha raccontato, in veste di “testimone dell’epoca”, come ama definirsi lui stesso, un’infinità di storie e di dimensioni umane, sempre con semplicità, sentimento ed una giusta dose di lucidità e razionalità. Lo abbiamo intervistato in occasione dell’inaugurazione della mostra “Gianni Berengo Gardin. Storie di un fotografo”,  personale allestita a Palazzo Reale a Milano, e visitabile sino al prossimo 8 settembre. La mostra, già allestita a Vanezia alla Casa dei Tre Oci, propone qui una nuova sezione dedicata proprio alla “Gente di Milano”.
 
Cosa ha rappresentato per lei la fotografia, che l’ha accompagnata per tutta la vita?
Mi sono avvicinato alla fotografia dapprima come foto amatore, Per i primi sei anni è stato un passatempo, e poi è diventato un mestiere, e quindi un piacere, un interesse ed una passione che, per di più, per fare, mi pagavano. 
 
Tra le 180 immagini in esposizione, ce n’è una a cui è particolarmente legato, e perché?
Francamente no. E’ come se avessi dieci figli e ti chiedessero quale preferisci. Ci sono alcune che preferisco un po’ di più, ma in linea di massima tutte, perché si tratta di una selezione molto ristretta fatta con Denis Curti su un milione e cinquecento mila scatti che ho in archivio, per cui si tratta già delle immagini che sento come maggiormente rappresentative.  
 
Lei è autore di numerosi reportage. Qual è lo spirito che li accomuna e in cui sente di identificare la cifra stilistica del suo lavoro? 
Ci sono certi lavori che sono lavori di denuncia, come quello dei manicomi per Franco Basaglia, o quello sugli zingari, su come noi trattiamo gli zingari. Si tratta di andare ad indagare e denunciare determinati aspetti sociali. Altri lavori sono più leggeri e piacevoli, sia come temi trattati che quindi come immagini da vedere.  
 
Come mai la scelta di utilizzare, durante tutta la sua carriera, il bianco e nero?
Perché io sono nato con il cinema in bianco e nero, con la televisione in bianco e nero. Tutti i miei maestri dai quali ho imparato, sia dai fotografi americani come Robert Frank, James Smith, sia quelli francesi che ho frequentato moltissimo negli anni in cui ho vissuto a Parigi, Doisneau, Willy Ronis, erano fotografi di bianco e nero. Ho succhiato latte in bianco e nero, e quindi non avrei potuto fare altro tipo di fotografia. Ritengo inoltre che per il genere che faccio io, il bianco e nero sia più efficace, perché secondo me il colore distrae sempre. Quando si guarda una foto a colori si osservano di più i colori che non il contenuto che il fotografo voleva esprimere. 
 
Lei si è pronunciato più volte contro il digitale. Come mai questa crociata? Che cosa, a suo avviso, il digitale ha sottratto alla fotografia analogica?
Trovo che il digitale rovini la mentalità dei fotografi. Ritengo che abbia soltanto due vantaggi: quello di poter mandare una fotografia appena fatta in tutto il mondo, esigenza che peraltro io non ho, e la possibilità di variare secondo le condizioni di luce in cui si trova. Per il resto, tutti gli altri sono svantaggi rispetto alla pellicola. Per questo io continuo a fotografare rigidamente in pellicola, e sono certo che la pellicola sia meglio del digitale, anche se capisco che per certi fotografi che fanno attualità sia un mezzo necessario. Per tutti gli altri no, perché il digitale è freddo, piatto, metallico, a differenza della estrema plasticità della pellicola. 
 
16 giugno 2013
 
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