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Alessandro Grassani, ”Il mio credo è una fotografia dal forte impegno sociale”

La passione per il viaggio e il bisogno di raccontare, di raccontarsi. Sono questi gli elementi alla base del percorso professionale di Alessandro Grassani, giovane fotografo italiano, che con i suoi lavori ha ormai raggiunto un riscontro internazionale...
Il giovane fotografo italiano Alessandro Grassani racconta il suo fare fotografia, ripercorrendo le tappe del suo lavoro fino all’ultimo progetto “Environmental Migrants: the last illusion”, un documento dal grande valore sociale

MILANO – La passione per il viaggio e il bisogno di raccontare, di raccontarsi. Sono questi gli elementi alla base del percorso professionale di Alessandro Grassani, giovane fotografo italiano, che con i suoi lavori ha ormai raggiunto un riscontro internazionale. Da anni impegnato nel documentare i conflitti, a dar voce alle popolazioni nei territori marginali del mondo, attraverso una fotografia rispettosa del soggetto, dal forte impegno sociale ed etico, in questa intervista Grassani ripercorre i punti fermi del suo essere fotografo, raccontandoci in particolare come è nato il suo ultimo reportage “Environmental Migrants: the last illusion”, un documento sulle migrazioni forzate dai cambiamenti climatici. Il 17 novembre 2012, Alessandro Grassani sarà protagonista a Milano, presso la sede di Fotonomica, con un workshop sul tema “Reportage, dall’idea alla realizzazione”.

Come è nata la tua passione per la fotografia?
La mia passione per la fotografia è nata dall’associazione di alcune passioni, come il viaggio e il racconto, e alcuni valori in cui credo profondamente. La fotografia è per me l’arte con la quale tutto questo prende forma, il modo migliore che ho per esprimere me stesso e raccontare tutto quello che mi accade intorno.

Quale è stata la svolta nella tua carriera che ti ha fatto propendere per il fotogiornalismo e ti ha spinto ad andare in giro per il mondo ad occuparti di eventi internazionali, alla ricerca di grandi tematiche sociali da approfondire?
Ho studiato fotografia all’Istituto Riccardo Bauer di Milano e, subito dopo, ho iniziato a lavorare come assistente per diversi fotografi nell’ambito della fotografia pubblicitaria. Una breve parentesi, perché avevo ben chiaro in mente che cosa fosse la fotografia per me: ho deciso di diventare un fotografo per raccontare storie, per mostrare agli altri quello che, per diverse ragioni, non hanno l’opportunità o il potere di vedere: credo in una fotografia dal forte impegno sociale, da sempre.

Il tuo lavoro di fotografo documentarista ti ha portato in Albania, nei Balcani, in Sud America, Asia e Medio Oriente. Nel 2004 eri presente sulla striscia di Gaza per documentare il conflitto israeliano-palestinese e ti sei più volte occupato delle svolte politico-culturali in corso in Iran. In situazioni così estreme come organizzi il tuo lavoro? Come prepari il tuo reportage?
Tutti i miei lavori sono costruiti su approfondite ricerche giornalistiche, ma mi piace pensare che una volta partito sia l’istinto a guidarmi. Tento di lasciarmi alle spalle, senza perderla, l’oggettività della storia e mi faccio guidare dalle emozioni, dagli eventi, dagli incontri. Solo così si possono raccontare storie personali, frutto della tua preparazione prima della partenza, ma anche della sensibilità che ti ha accompagnato in luoghi e fatto incontrare persone che, per ovvie ragioni, gli altri non avrebbero mai conosciuto. Organizzare il lavoro in situazioni di grandi difficoltà non è semplice, senza scendere in dettagli pratici posso dire che ci vuole moltissima costanza e tanta forza di volontà. Credo sia importantissimo non perdere mai l’umanità: in situazioni di estrema sofferenza è fondamentale far capire al soggetto che stai fotografando il profondo rispetto che provi per lui e l’utilità del tuo lavoro.

“Environmental Migrants: the last illusion” è il tuo ultimo progetto, che si è aggiudicato il terzo posto al Sony World Photography Award 2012, nella sezione ‘Contemporary issues’, e il PX3 Paris Photo Competition. Come è nato?
Come dicevo tutti i miei lavori sono costruiti su approfondite ricerche giornalistiche. Sono un fotografo documentarista e, oltre a scattare immagini di qualità, cerco di raccontare storie poco conosciute o di proporre un punto di vista diverso su una tematica già trattata da altri. La preparazione di un reportage o di un progetto fotografico richiede molto tempo e le fonti sono sempre diverse. Volevo iniziare un lavoro sui cambiamenti climatici, un nuovo progetto che trattasse  un grande tema dei giorni nostri, cercavo una sfida che mi appassionasse per gli anni futuri. Ho iniziato le mie ricerche e ho scoperto che il 2008 ha segnato il punto di non ritorno: per la prima volta nella storia dell’uomo c’è più gente che vive nelle città che nelle campagne e le città cresceranno sempre di più a causa dei cambiamenti climatici e dei profughi climatici, destinati a diventare nel giro di pochi decenni la nuova emergenza umanitaria del pianeta: saranno 200milioni nel 2050. Mi sono chiesto chi fossero questi profughi climatici, da dove arrivano e dove vanno: ho ripercorso il loro cammino e raccontato le loro storie.

In “Environmental Migrants” c’è una fotografia a cui sei particolarmente legato? Puoi raccontarci in quali circostanze è stata scattata?
E’ sempre difficile trovare un’immagine preferita, ma scelgo quella della mamma che appena sveglia abbraccia suo figlio, che a sua volta abbraccia un agnellino. Dopo una notte passata a dormire per terra nella gher (tradizionale tenda mongola) insieme alle pecore più deboli che i pastori volevano proteggere dalle rigide temperature esterne, al mio risveglio, ho visto questa scena; così ho preso la macchina fotografica e senza neanche uscire dal sacco a pelo ho scattato. Ho vissuto con questi pastori, in un luogo molto isolato e difficilissimo da raggiungere. Ho viaggiato su un fuoristrada insieme al mio interprete per centinaia di chilometri in mezzo alla neve, senza strade e con temperature che arrivavano a meno cinquanta gradi. Ho documentato la vita di questa famiglia che combatte, per mantenere in vita il proprio gregge, contro il rigido inverno mongolo, ma ho anche spalato neve, tagliato legna e contribuito in tutti i modi al lavoro quotidiano di questi pastori. Questa immagine trasmette l’amore della madre per il figlio, l’amore di quella famiglia per il proprio gregge, e la paura per il futuro incerto a causa dei cambiamenti climatici. Quell’agnellino tra le braccia del bambino è morto il giorno dopo, e questa famiglia ha perso metà delle loro duemila pecore durante gli ultimi tre inverni. Di questo passo, in tre anni, anche loro saranno costretti ad abbandonare la loro vita nomade e a emigrare nella capitale Ulaan Baator, nell’illusione di trovare una vita migliore, da qui il titolo “Environmental migrants: the last illusion”.   

Che consigli daresti ai giovani che si avvicinano alla fotografia?
Impegnarsi su un progetto da sviluppare nel lungo periodo con grande passione e originalità.  Poi, uno dei consigli più utili che hanno dato a me è quello di camminare molto, perché se “il vero giornalismo è quello che si fa con la suola delle scarpe”, per la fotografia le cose non sono diverse.

22 ottobre 2012

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