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A Fotografia Europea una mostra su Carla Cerati e i suoi quarant’anni di lavoro

Dalle prime fotografie scattate a Milano, in cui Carla Cerati testimonia le trasformazioni architettoniche e sociali di una città in cambiamento, al lavoro sui manicomi condotto con Gianni Berengo Gardin, pubblicato nel 1969 da Einaudi in ''Morire di classe'', all'indagine sulla metamorfosi dei corpi. È ricchissima la mostra curata da Sandro Parmiggiani e allestita a Reggio Emilia...

Il critico d’arte Sandro Parmiggiani ci guida attravero l’esposizione, da lui curata, che il Festival di Reggio Emilia dedica alla grande fotografa e scrittrice italiana

MILANO – Dalle prime fotografie scattate a Milano, in cui Carla Cerati testimonia le trasformazioni architettoniche e sociali di una città in cambiamento, al lavoro sui manicomi condotto con Gianni Berengo Gardin, pubblicato nel 1969 da Einaudi in “Morire di classe”, all’indagine sulla metamorfosi dei corpi. È ricchissima la mostra curata da Sandro Parmiggiani e allestita a Reggio Emilia ai Chiostri di San Domenico, all’interno di Fotografia Europea. L’esposizione, presentata qui da Parmiggiani, sarà visitabile fino al 16 giugno.  

Qual è l’importanza di una rassegna come il Festival Fotografia Europea per la fotografia italiana e internazionale?
L’importanza di un festival è data dalla possibilità che offre di vedere concentrate nello stesso luogo, o in luoghi contigui all’interno della stessa città, esposizioni che spaziano dalla storia della fotografia alle espressioni nuove della fotografia contemporanea. A queste si affiancano ricerche commissionate da Fotografia Europea ad alcuni fotografi  e svolte sul campo a Reggio Emilia.

Da critico, ci può spiegare qual è la specificità della fotografia rispetto alle altre forme dell’arte visuale?
La fotografia ha una storia molto più recente delle altre forme d’arte. In realtà è nata con intenti del tutto diversi, ma è poi diventata, da almeno un secolo,  uno degli strumenti dell’espressione artistica. Questo sia attraverso le ricerche dei fotografi pittorialisti tra fine Ottocento e inizio Novecento – attraverso cioè la ricerca di immagini che abbiano prossimità con la visione che ci possono restituire le forme pittoriche – sia grazie alle sperimentazioni del secolo scorso che intervenivano direttamente sulla pellicola – come quelle di Luigi Veronesi e Nino Migliori. Nel tempo la fotografia è diventata un’espressione artistica con pari dignità delle altre, che ha preso dagli altri strumenti, ma ha anche dato agli strumenti dell’espressione artistica. C’è stato un interscambio. Del resto ci sono degli artisti che si avvalgono ora della fotografia, ora della pittura, ora di altri strumenti per dare forma a quello che sentono.

Venendo alla mostra in onore di Carla Cerati da lei curata, ci può spiegare il criterio di selezione delle opere?
Si tratta di una mostra antologica, nel senso che riflette tutto il percorso di Carla Cerati da quando verso la fine degli anni Cinquanta comincia a fotografare a quando, una quindicina di anni fa, cessa la sua attività, perché secondo lei non ci sono più le condizioni per portarla avanti. In un mondo in cui dominano la fretta e la superficialità e conta chi “sgomita” di più, come lei stessa ha affermato, non voleva essere sopraffatta. La mostra presenta un percorso lungo quarant’anni, in sintonia con il tema di Fotografia Europea, il cambiamento.

Può illustrarci un po’ più a fondo questo percorso espositivo e il modo in cui interpreta il tema di quest’anno del Festival?
L’esposizione testimonia ciò che Carla Cerati ha fatto nel tempo, a partire dalle prime attenzioni che ha avuto per la città in cui era andata ad abitare, Milano. La Milano che si modifica nel suo volto con la costruzione di nuovi palazzi, la Milano che si trasforma come presenze umane e sociali, di cui lei dà testimonianza nelle fotografie scattate nelle scuole o in quelle che ritraggono gli operai al lavoro. Passa poi a interessarsi ai riti sociali, nelle fotografie degli anni Settanta che ritraggono quello che lei chiama “Mondo Cocktail”. C’è in generale da parte sua una grande attenzione alla sua città e ai suoi cambiamenti – Carla Cerati ha anche realizzato un ciclo che si intitola proprio “Milano metamorfosi”. Questa è una prima parte della  mostra. C’è poi una seconda parte del suo lavoro in cui possiamo considerare Carla Cerati una sorta di fotoreporter. Testimonia le manifestazioni studentesche e operaie a Milano, l’alluvione a Firenze del ’66, il processo “Calabresi-Lotta Continua”. Alla fine degli anni Sessanta decide di entrare nei manicomi per documentare il dolore e la sofferenza delle persone internate. Il libro pubblicato da Einaudi nel 1969, “Morire di classe”, che raccoglie il lavoro di Carla Cerati e di Gianni Berengo Gardin su questa realtà, ha avuto un ruolo fondamentale nel modificare l’opinione pubblica italiana sui manicomi. Si mostrava infatti per la prima volta un mondo che nessuno conosceva, o che nessuno voleva conoscere. E ancora c’è tutta un’indagine sulla metamorfosi del corpo, con studi su singole persone fotografate a distanza di anni, ritratti del corpo femminile nudo visto nel vuoto o immortalato mentre danza – come nelle bellissime fotografie a Valeria Magli –, e il lavoro sul teatro, per cui Carla Cerati ha sempre nutrito un grande interesse. C’è tutta una serie di immagini del Living Theatre, del ballerino Antonio Gades, del Bread and Puppet Theatre…

Un repertorio davvero ricco insomma…
Sì, e non è finita qui: a completare la mostra si aggiungono altri quattro capitoli. In primo luogo i ritratti di scrittori, musicisti, uomini di teatro – Carla Cerati infatti frequentava i dibattiti culturali che si svolgevano nella Milano degli anni Sessanta.  Possiamo vedere per esempio Pasolini, Calvino, Vittorini. C’è poi un ciclo realizzato negli anni Ottanta, “Capricci”, dedicato alla metamorfosi ottenuta attraverso i travestimenti – una serie di immagini a colori in cui protagonista è ancora Valeria Magli. E poi ci sono le fotografie di architetture realizzate negli anni Novanta, che si ricollegano in qualche modo ai suoi ritratti delle Langhe degli anni Sessanta. Infine, c’è un interessante appendice con una serie di grandi cartelloni in cui Carla Cerati accoppia fotografie sue originali con scritte, anche ironiche, sul tema della condizione della donna nei primi anni Settanta, tra stereotipi e luoghi comuni. Questo lavoro ci rimanda a un altro aspetto del lavoro dell’artista che non può certo essere trascurato, quello di scrittrice.


La fotografia di Carla Cerati, come lei stesso ha sottolineato, ha avuto, come nel lavoro sui manicomi, un valore documentario, di testimonianza. Anche nell’epoca digitale la fotografia conserva questo ruolo o, a causa delle maggiori possibilità di manipolazione delle immagini, lo perde?

Questo è certamente un pericolo, ma nella storia della fotografia ci sono già in passato esempi di manipolazione delle immagini. Penso per esempio a quanto accadeva in Russia o in Cina, dove certi personaggi un tempo potenti venivano eliminati dalle fotografie perché caduti in disgrazia. Non si tratta di una pratica legata solo alle facilitazioni introdotte dal digitale. È vero poi che oggi la fotografia è diventata uno strumento molto democratico e che abbiamo una produzione fluviale di immagini, scattate e trasmesse immediatamente. Ma personalmente ritengo, e secondo me lo si può notare anche guardando le immagini che abbiamo delle Primavere Arabe, che le fotografie che sanno davvero trasmettere la verità di fatti, eventi, situazioni siano quelle dei professionisti. Il fotografo professionista reca dentro di sé un bagaglio di riferimenti che lo aiutano a vedere ciò che gli altri non sono in grado di scorgere. La visione e la fotografia è guidata dal pensiero.

8 maggio 2013

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