Marina Cvetaeva, poetessa dalla sensibilità acuta e dalla profondità lirica ineguagliabile, riflette nel suo saggio “Il poeta e il tempo” su un aspetto essenziale della creazione artistica: la timidezza dell’artista di fronte alla propria opera. La citazione da lei riportata, attribuita a Vjačeslav Ivanov, mette in luce un concetto fondamentale: l’artista, una volta iniziato il processo creativo, perde la propria libertà, diventando un semplice strumento nelle mani dell’opera stessa. Questo pensiero si collega alla tradizione del fervore creativo come possessione, una forza che trascende l’individuo e lo spinge in una dimensione dove il sé viene dimenticato.
La timidezza dell’artista di fronte alla propria opera. Dimentica che non è lui a scrivere. Parole di Vjačeslav Ivanov (1920, Mosca – cercava di convincermi a scrivere un romanzo): «L’importante è cominciare! già dalla terza pagina vi accorgerete che non avete nessuna libertà» – cioè: mi troverò in balìa dell’opera, cioè del demone, cioè sarò soltanto un servo servizievole. Dimenticare se stessi è innanzitutto dimenticare la propria debolezza.
La creazione come abbandono del sé nelle parole di Marina Cvetaeva
Secondo Cvetaeva, l’atto creativo non è un esercizio di volontà, ma piuttosto un lasciarsi andare a una forza superiore. L’artista, nel momento in cui si immerge nel processo di scrittura, cessa di essere il padrone della propria opera e ne diventa il servitore. Questo tema non è nuovo nella storia della letteratura e della filosofia: già Platone parlava del poeta come un essere ispirato dagli dèi, un tramite attraverso cui la verità prende forma. Anche in epoche successive, artisti e scrittori hanno descritto la creazione come un processo in cui si è travolti da un’energia incontenibile, come una sorta di trance che annulla l’ego e la coscienza razionale.
Il demone della scrittura
Il riferimento di Cvetaeva al “demone” dell’arte richiama un concetto caro alla tradizione poetica e filosofica. Da Socrate, che parlava del suo daimon interiore, fino ai romantici che vedevano nella creatività una sorta di febbre spirituale, la figura del demone esprime la forza inarrestabile dell’ispirazione. Scrivere, per Cvetaeva, significa entrare in un territorio sconosciuto dove le parole prendono il sopravvento, plasmando la mente dell’autore più di quanto l’autore stesso plasmi le parole. Questa idea si contrappone alla visione dell’arte come espressione della volontà individuale e dell’ingegno razionale, sostenendo invece una visione dell’atto creativo come un’esperienza quasi mistica.
La perdita della libertà creativa
Ivanov, citato da Cvetaeva, sottolinea che “l’importante è cominciare” e che, già dalla terza pagina, l’artista si accorgerà di non avere più alcuna libertà. Questo suggerisce che l’opera prende vita propria, stabilendo le proprie regole e la propria logica interna. L’artista non è un demiurgo onnipotente, ma un esploratore che segue le tracce di un sentiero che si costruisce mentre lo percorre. È una prospettiva che molti scrittori e poeti hanno riconosciuto nella loro esperienza: basti pensare a Franz Kafka, che parlava della scrittura come di una forza inarrestabile che lo trascinava con sé, o a Rainer Maria Rilke, che vedeva l’arte come una sorta di missione ineluttabile.
Dimenticare se stessi: un atto di forza
La frase conclusiva della citazione, “Dimenticare se stessi è innanzitutto dimenticare la propria debolezza”, aggiunge un ulteriore livello di significato alla riflessione di Marina Cvetaeva. L’artista, per creare, deve liberarsi non solo della propria identità, ma anche dei propri limiti e delle proprie insicurezze. La paura del fallimento, il timore del giudizio, il senso di inadeguatezza sono ostacoli che possono paralizzare l’atto creativo. Solo attraverso l’abbandono totale alla propria opera, l’artista può superare queste fragilità e raggiungere un’espressione autentica.
Ciò che emerge da queste riflessioni è un apparente paradosso: l’artista trova la massima libertà nel momento in cui si arrende all’ispirazione e smette di esercitare un controllo cosciente sulla propria opera. Questo concetto si collega a molte filosofie orientali, secondo cui il vero dominio di un’arte non sta nel cercare di governarla con forza, ma nel fluire con essa, lasciandosi trasportare dal processo creativo. È un’idea che si ritrova anche nel surrealismo, in cui la scrittura automatica e l’abbandono alle associazioni libere della mente diventano strumenti per raggiungere una verità più profonda.
Le parole di Marina Cvetaeva ci offrono uno spunto di riflessione profondo sulla natura dell’arte e del processo creativo. L’idea che l’artista sia solo un tramite e che l’opera abbia una vita propria ribalta la concezione tradizionale della scrittura come atto di volontà. L’arte, secondo questa visione, non è qualcosa che si possiede o si controlla, ma qualcosa che si subisce, a cui ci si deve arrendere. E in questa resa, paradossalmente, si trova la più alta espressione di libertà e di verità.