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La recita – di Mario Pacchiarotti

La donna apre la porta con delicatezza: sono da poco passate le cinque del mattino, suo figlio ha il sonno pesante, ma non vuole correre il rischio di essere scoperta mentre rincasa a quell’ora.

Entra in silenzio, toglie il cappotto e va subito in bagno, chiudendo bene la porta.

Si guarda nello specchio. Da quando il marito è stato ricoverato dorme poco e niente. Sono settimane ormai, ma le sembrano anni. Scuote la testa, si spoglia e si infila nella doccia.

Lascia che l’acqua calda scorra a lungo, come se volesse lavare via insieme al sudore anche tutta la tristezza che prova. Non funziona. Non può funzionare: si sente spezzata, persa, stordita. Vive come in un sogno ovattato, dove persino il dolore è sordo, lontano. Tuttavia il suo corpo trova ristoro nel calore di quella breve tregua.

Si asciuga, senza usare il fòn, per non fare rumore: non è ancora pronta ad affrontare suo figlio.

Di nuovo davanti allo specchio. I capelli vanno meglio, ma il nero delle occhiaie è profondo quanto la sua angoscia. Trema un po’, forse per il freddo, forse perché qualcosa sta per spezzarsi dentro di lei. Stringe l’accappatoio a sé, facendosi forza. Non può crollare. Non ancora.

Prende il beauty. Comincia a lavorare sul viso con i cosmetici: copre le occhiaie, passa il fondotinta, si trucca gli occhi, ravviva le guance. Usa un rossetto leggero per dare un po’ di colore alle labbra esangui. Passo dopo passo il suo viso si trasforma.

Quando ha finito osserva il risultato. Non è perfetto, ma sarà abbastanza per ingannare gli occhi distratti e inesperti del figlio. Rimane solo l’espressione del viso a tradire le emozioni che ribollono sotto la sua superficie dipinta.

Raggiunge la camera da letto. Lo disfa, simulando il disordine di una notte, passata invece altrove, a vegliare il marito. Si veste con cura, infine osserva il risultato nel grande specchio dell’armadio: è quasi pronta.

Manca poco alle sei e trenta. Entra in cucina e prepara con cura la colazione, apparecchiando per lei e il figlio. Quest’anno ha l’esame di maturità, deve mangiare bene. Deve stare tranquillo e studiare. Pensare a lui la fa sentire meglio.

Ora va nella camera del figlio: dorme ancora. Ha compiuto già diciotto anni, è un ragazzone, quasi un uomo, ma rimane un cucciolo ai suoi occhi. Da amare e difendere. Lo sarà sempre.

Si accovaccia accanto al letto e lo guarda da vicino: è tutto suo padre, pensa, tutto quello che mi rimarrà di lui.

Sospira. Poi raccoglie le forze, come fanno gli atleti prima di una gara, come i soldati prima della battaglia. Il suo viso cambia espressione: ora è pronta.

Allunga una mano e piano piano, con dolcezza, lo accarezza e lo scuote: “Sveglia Mirko, è ora di alzarsi, devi andare a scuola…”

Lui socchiude gli occhi, lei sorride: “Buongiorno mamma…”

Si alza sui gomiti e la guarda: “Come sei bella stamattina.”

Lei ride e si schernisce, scherzando: “Come il culo della padella… Dai alzati, la colazione è già pronta.”

Va in cucina e dopo poco lui la raggiunge.

“Come sta papà? Meglio?”

Lei non perde il sorriso: “Sempre uguale. I dottori dicono che può volerci un po’ di tempo prima che si riprenda.” Sta morendo, pensa, ci sta lasciando.

“Hai dormito bene stanotte? Non ti ho sentita rientrare.”

“Ho fatto tardi. Ma ho dormito qualche ora.” Non posso vivere senza tuo padre. Ho paura, non so come fare, vorrebbe dire, ma non può farlo, non vuole.

Cambia discorso: “Hai qualche compito in classe questa settimana?”

“No, ma sto lavorando alla tesina.”

Continuano a parlare della scuola, mentre fanno colazione. Parlano e scherzano ancora, mentre lui si prepara per uscire. Una famiglia serena, un colloquio normale, nessuna tensione tra loro, nessun dolore.

Poi il ragazzo esce per andare a scuola. Un bacio sulla porta, grandi sorrisi: “Ti lascio la cena pronta, forse torno tardi anche stasera.” Se tuo padre non muore prima.

Va alla finestra per guardarlo mentre cammina in strada. Anche oggi lo ha ingannato, e gli ha donato un giorno di serenità in più. Ci sarà tempo per piangere.

Quando lui scompare dietro l’angolo del palazzo, le lacrime hanno già lavato via un po’ di quella maschera di tinte e belletti, di sorrisi e parole, che ha indossato come un guerriero, per difenderlo da quel dolore sordo, dal vuoto che la attanaglia.

Va in bagno, si pulisce la faccia, ormai impastata di lacrime e crema.

Per oggi la recita è finita, si replica domani, pensa, mentre la bocca si distende in un sorriso amaro.

 

 

Mario Pacchiarotti

 

 

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