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Dafne – Racconto di Aurora Meneghello

Elsa chiuse la finestra, ma non troppo in fretta perchè una folata di vento non riuscisse ad entrare e le provocasse uno starnuto. Rimase immobile con il bicchiere gocciolante tra le mani davanti al vetro che si stava appannando a fissare la sua piccola pianta. Era la prima cosa viva che le fosse mai appartenuta. Le piaceva occuparsi di lei, la faceva sentire utile, ma non sempre si ricordava di lei e a volte la trovava con le foglie penzoloni e i fiori colorati mezzi appassiti. Allora correva in cucina riempiva un bicchiere sperando che non fosse troppo tardi. Se solo avesse potuto parlare! Ma non ce ne era bisogno: Elsa la sentiva. Non sapeva esattamente che cosa le dicesse, ma era sicura di sentirla. Naturalmente non lo aveva confessato a nessuno: l’avrebbero sicuramente presa per matta, e forse un po’ lo era, ma Elsa non se ne curava. Aveva letto molte storie di amici immaginari e Elsa ne aveva sempre voluto uno, ma le bambole le davano un senso di tristezza e i comuni giochi la annoiavano presto.
Quando la vide al mercato dei fiori la riconobbe subito: era lei. Ce ne erano altre intorno, ma lei, anche se non era la più bella, aveva qualcosa di speciale. Non l’avrebbe lasciata da sola lì in mezzo, ma l’avrebbe portata a casa per porla in un posto altrettanto speciale. Contò gli spiccioli che le erano rimasti in tasca e la indicò al venditore. Mentre la portava a casa pensò che avrebbe preferito un gatto, ma sua madre non glielo avrebbe mai permesso, così aveva optato per la seconda scelta: senza offesa naturalmente!
La appoggiò delicatamente sulla scrivania, salì sulla sedia per raggiungere un barattolo di latta posto sul ripiano più alto della libreria, tolse il tappo e lo osservò: era perfetto per Dafne, così l’avrebbe chiamata. Dafne che era stata trasformata in lauro per sfuggire all’amore di Apollo: era il simbolo della rigenerazione. Elsa lo aveva letto in uno delle centinaia di libri che popolavano la sua stanza. La affascinavano quelle storie fuori dal tempo, mai avvenute, ma che facevano riflettere, ricche di suggestioni, ma anche di tristezza. Avrebbe voluto viaggiare sulle ali del tempo, scrutare la memoria del mondo, imparare dagli errori del passato e riprendere quello che di buono era andato perduto. Niente era degno di essere cestinato e la camera di Elsa ne era un esempio lampante. Appena si entrava si aveva l’impressione di essere in un ripostiglio, dove le cose venivano ammassate senza logica, tranne per il fatto che c’era il letto. Libri e fogli erano sparsi ovunque, barattoli di penne finite, pennarelli senza tappo, lattine vuote, cartoline da tutto il mondo… Il fatto era che Elsa riusciva a capirci qualcosa. Sapeva sempre dove trovare ciò che stava cercando, le bastava alzare un libro, spostare delle riviste ed ecco che spuntava un indirizzo o un numero di telefono che si era appuntata qualche settimana prima. Elsa era fatta così e difficilmente sarebbe potuta cambiare: non era nella sua natura, anche sua madre vi aveva rinunciato.
Fuori si stava facendo sempre più buio e i lampioni della strada si accesero, ma Elsa non se ne accorse. Continuava a fissare Dafne e aveva stabilito con lei un contatto fuori dal tempo e dallo spazio. Dafne era per Elsa la memoria, la memoria di millenni di vite vissute, era come se racchiudesse i segreti dell’universo, quello che ancora vi era di sconosciuto, di nascosto e di spaventoso. Elsa veniva attirata in un altro mondo, a volte attraverso una foglia o attraverso un petalo. Raggiungeva l’infinitamente piccolo per arrivare nell’infinitamente grande. Grande, piccolo, infinito erano concetti familiari per Elsa, le piaceva perdervisi dentro. Allora non esisteva più niente intorno a lei. In qualunque posto si trovasse materialmente, lei era altrove.

La pioggia cominciò a battere con insistenza sul vetro, quasi ad avvertirla che non poteva rimanere ancora lì con piedi nudi sul pavimento freddo. Riusciva a vedere ben poco di quanto era fuori, allora si mise ad osservare le gocce che venivano verso di lei, si frantumavano sulla superficie trasparente e scendevano per la loro ultima corsa fino al davanzale. Nessuna aveva più un’identità, ma diventavano un tutt’uno indistinguibile. Le piaceva rimanere sotto la pioggia, specialmente durante quegli improvvisi temporali estivi che la sorprendevano sul mare. Sorrideva nel vedere il resto del mondo che cominciava a correre per ogni dove per cercare un riparo. Lei non ne aveva bisogno. Avrebbe voluto che il suo corpo si sciogliesse e andasse a confondersi in una macchia scura tra le migliaia di gocce che le precipitavano addosso da così lontano.
Elsa un po’ invidiava Dafne: non ci si aspettava niente da lei, era solo una pianta e doveva fare la pianta, il suo futuro era scritto e niente e nessuno avrebbe preteso che cominciasse a muoversi o a parlare. Per Elsa invece era tutto più complicato: era un essere umano. Non si ricordava, per quanto andasse indietro col pensiero, se era stata lei a chiedere di esserlo o chi aveva deciso per lei. Non era ancora sicura che le piacesse, ma in fondo in fondo ne era orgogliosa e questo lei lo sapeva, anche se alcune volte lo dimenticava.
Tutti i pensieri che le turbinavano in quella mente ancora giovane sarebbero maturati e ad essi se ne sarebbero aggiunti altri. Ognuno avrebbe reclamato il suo spazio, ma poi ogni cosa sarebbe andata al suo posto, Elsa ne era sicura. Non sapeva chi dovesse ringraziare per avere avuto uno strumento talmente potente da poter utilizzare. Non avrebbe permesso che la polvere vi si depositasse, i suoi ingranaggi avrebbero funzionato sempre alla perfezione, Elsa lo promise a se stessa e a Dafne.
La poggia era distinguibile attorno alla luce del lampione, Elsa sperò che il giorno seguente concedesse al sole di farsi vedere e con quel pensiero si infilò sotto le lenzuola un po’ fredde e si addormentò.

 

Aurora Meneghello

 

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