Nel vasto patrimonio della lingua italiana esistono coppie di parole che sembrano equivalenti, ma che in realtà racchiudono sfumature diverse di significato, oltre a storie e stratificazioni d’uso che ne rivelano la ricchezza. È il caso dei termini “volenteroso” e “volonteroso”, due aggettivi che condividono un’origine comune — la “volontà” — ma che si distinguono per frequenza, contesto e colore stilistico. Mentre il primo è più comune nell’italiano contemporaneo, il secondo appare oggi arcaico o letterario, pur avendo avuto ampia fortuna nei secoli passati.
Etimologia e significato dei due termine della lingua italiana
Entrambi i termini derivano dalla parola volontà, che a sua volta risale al latino voluntas, forma astratta di velle, ovvero “volere”. L’idea alla base è quindi quella dell’inclinazione interiore, del desiderio, della disposizione d’animo.
Il volenteroso è, nel suo uso moderno, chi si mette con impegno e buona disposizione a fare qualcosa, anche se magari non ha grande competenza. È un aggettivo positivo, che si applica a chi è disposto ad aiutare, ad apprendere, a contribuire con entusiasmo. Per esempio: “Non è ancora esperto, ma è un ragazzo volenteroso”. L’accento è posto sulla prontezza, sulla buona volontà, più che sul risultato.
Volonteroso, invece, è forma più antica, usata in testi letterari e oggi caduta quasi del tutto in disuso. Eppure, per secoli è stato l’aggettivo preferito da scrittori come Giovanni Boccaccio, Matteo Maria Boiardo, Bernardo da Bologna e altri autori medievali e rinascimentali. L’etimo è lo stesso, ma l’uso si caratterizza per una maggiore intensità emotiva: il “volonteroso” non è solo pronto ad agire, ma spesso lo è con ardore, desiderio profondo, impeto interiore.
Volenteroso: il valore della buona volontà
Nel contesto attuale, il termine “volenteroso” è spesso associato all’idea di apprendistato, umiltà, partecipazione attiva. Non di rado si usa per attenuare una mancanza di competenza, riconoscendo tuttavia la qualità morale della persona: “Lo studente è volenteroso, anche se non sempre brillante”.
È un aggettivo dall’uso quotidiano, molto impiegato nel linguaggio scolastico, lavorativo e persino burocratico. Spesso lo si trova in schede di valutazione, in giudizi educativi, in lettere di referenza. Implica una virtù etica, l’opposto della pigrizia o dell’inerzia. Anche se oggi ha perso un po’ del suo vigore originario, resta una parola che celebra la volontà come motore dell’agire umano.
Volonteroso: termine comune nei testi di epoca medievale e moderna
Nella forma “volonteroso” — oggi ritenuta arcaica — la volontà si colora di passione, impeto, tensione emotiva. È un termine che nei testi del Trecento e Quattrocento descriveva un desiderio ardente, un’anima pronta all’azione o al sacrificio, spesso in contesti eroici, religiosi, amorosi.
Boccaccio, per esempio, usa “volonterosa” per descrivere una donna pronta a obbedire con prontezza, oppure monache così desiderose di aprire una porta da rischiare di spalancarla troppo. In altri contesti, si parla di “volonterosi di guadagnare assai”, o di “volonterosa d’onore” — espressioni che evidenziano il legame del termine con la brama, la bramosia, l’anelito profondo verso qualcosa.
In tal senso, “volonteroso” si avvicina a parole come desideroso, bramoso, fervente, e mantiene il significato classico di un animo mosso da un forte impulso interiore. L’aggettivo greco πρόθυμος e quello latino cupidus sono chiamati in causa proprio per rafforzare questa valenza passionale.
La perdita di una sfumatura
Oggi, usare “volonteroso” come sinonimo di “volenteroso” è considerato un impoverimento lessicale, poiché si perde tutta la gamma semantica legata all’impeto, alla tensione interiore, al fervore. L’unificazione dei due termini a favore del più comune “volenteroso” ha semplificato l’italiano, ma anche tolto profondità a un aggettivo che, per secoli, ha saputo dire molto più della sola “buona volontà”.
Come osserva il sito Una parola al giorno, quando usiamo “volonteroso” come semplice variante ortografica, rinunciamo al suo potere evocativo. È un termine che sa parlare di battaglie interiori, di vocazioni accese, di passioni tenaci — e che forse meriterebbe una riscoperta.
“Volenteroso” e “volonteroso” sono due parole che condividono la stessa radice ma che raccontano due modi diversi di sentire la volontà: uno più moderno, razionale, positivo, l’altro più antico, impulsivo, ardente. Nella prima si riconosce chi offre il proprio impegno con umiltà; nella seconda, chi è mosso da un desiderio profondo, che lo spinge all’azione con forza.
Riscoprire il significato pieno di “volonteroso” non è solo un esercizio di erudizione: è anche un modo per restituire alla lingua italiana una parola capace di dire il fuoco interiore, non solo l’applicazione diligente. In un tempo in cui la volontà spesso si spegne nel formalismo, forse vale la pena ricordare che non tutto ciò che si fa con buona volontà è uguale: c’è chi agisce per dovere, e chi per passione. Volenteroso il primo, volonteroso il secondo. E la differenza non è solo grammaticale.