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“Planimetria di una famiglia felice”, la scia luminosa del tempo del gioco

Scopriamo insieme l'esordio letterario di Lia Piano, figlia di Renzo e direttrice della Fondazione Renzo Piano a Parigi

Esisteva un tempo in cui i bambini giocavano incessantemente ovunque, alimentando ad ogni esplorazione segreta l’universo immaginifico interiore. Una grande casa poteva diventare un mondo fantastico da abitare, se con te avevi due fratelli, una tata magica, un esercito di animali a farti compagnia e un paio di genitori sognatori incalliti, che cambiavano casa e nazione con facilità e preferivano la sprizzante vitalità di un pollaio alla mestizia delle piante ornamentali da tenere in giardino. E volevano i libri ovunque.

“Se c’erano i libri, significava che quella era casa. Finalmente ci eravamo fermati.”

Deve essere stata più o meno così l’infanzia di Lia Piano, che con il suo esordio letterario , edito da Bompiani, Planimetria di una famiglia felice, dosa con maestria gocce di memoria e guizzi di invenzione narrativa, infarcendo il tutto con amabile ironia, che rende spugnoso e ben lievitato l’impasto di una storia che si taglia a fette e si gusta con la gioia pura della partecipazione.

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“Di notte la casa diventava una lanterna magica. Non c’era verso di fare buio, né silenzio. La luna entrava dalle finestre spalancate e si frangeva nelle griglie delle vetrate, disegnando sul pavimento una grande scacchiera. Io giocavo a campana, saldando fuori e dentro dai quadrati luminosi.”

Sono gli anni settanta e volano gli occhiali da vista, insieme ai sogni. Mentre la grande Genova è un’apparizione sorprendente per liberi naviganti di stupori.

La Nana seienne racconta quello che vive dal suo irresistibile punto di vista: la tata calabrese che non parla l’italiano eppure, a modo suo, sa fornire gli esempi di congiuntivo e condizionale per prendere un “lodevole” a scuola, il papà caparbiamente intento a costruire una barca nel seminterrato, la mamma bellissima con i tacchi alti, i fratelli Marco e Gioele, tutti con un’innata disposizione a diventare velisti all’occorrenza, quando è tempo di vacanze estive e il capofamiglia decide che è l’ora di salpare.

“Jettala, jettala a mari/ si la pigghia lu piscicani/ si la pigghia lu piscitunnu,/jettala a mari ‘mpundu, mpundu.”, urla l’adorabile Maria, in calabrese, per svegliare la ciurma. Una donna del Sud che resiste alle contaminazioni della cadenza del Nord, capace di evocare suggestioni antiche in poche, apparentemente incomprensibili sillabe.

“E Maria metteva ordine. Nelle stanze e nelle parole. Ne aveva un centinaio, non di più, e le dovevano bastare per dominare il caos di tutta la casa e i suoi abitanti. Ognuna evocava un mondo intero. Tiravi il filo di quella parola, anche la più semplice, e salvavi un pezzo di mondo.”.

Su tutti, lo spettro di un’assistente sociale che ha imparato a ragionare per schemi e trascorre il tempo nella casa appuntando giudizi con i punti esclamativi sul suo quaderno. “Se non aveva un senso per lei, allora non aveva senso.”, commenta con sorprendente schiettezza una Nana che dichiara “Noi eravamo abituati al contrario, sguazzavamo nell’insensatezza.”. Quanta bellezza in quell’apparente insensatezza…

Che ne sanno i ragazzini che trascorrono le ore a giocare con i telefonini di quanta vita c’è fuori? Troppa, tanta vita che sa sorprendere, sempre. E quanto è bello essere bambini! Ci sarà tempo per diventare grandi, intanto ogni attimo dell’infanzia è un momento imperdibile.

Davvero peccato sprecarlo senza viverlo, guardando il mondo filtrato in un video di Instragram.

“D’improvviso, tutto quello che io sapevo fare mi sembrò completamente inutile. Io eccellevo nell’attività più stupida di tutte: essere una bambina. Non era lei quella sbagliata. Ero io che ero piccola. E non c’era rimedio. Inutile inseguire i grandi.” 

Proprio nell’ariosa innocenza che trasuda da ogni rigo, si comprende il grande dono dell’autrice, capace di rapire il lettore in una dimensione inaspettata, in cui il disegno di Shunji Ishida pubblicato nelle prime pagine, che ha riempito gli occhi di Lia durante la scrittura, diventa, per il lettore, un’apparizione della grande casa da ricercare tra un capitolo e l’altro.

Come si fa a essere felici? Come si fa a immaginare una planimetria di una famiglia che riesce ad esserlo? Forse si può fare unicamente lasciando scorrere la vita, accettando che, a volte, le persone possano diventare “un castello inespugnabile” e facendone scrittura. Non c’è altra ricetta.

“Maria o l’afferravi al volo o ti scappava per sempre. Dovevi catturarla come le lucciole nelle notti di fine maggio: delicatamente tra le mani, nel buio completo del giardino.”.

Chiassosa e imperfetta, come solo le famiglie grandi e autentiche sanno essere. Eppure poetica e capace di dar peso alle parole, anche quelle non dette. “Ci eravamo tutti inabissati nel nostro silenzio abitato da rare, scelte parole.”

 Come si ascolta il mare in una conchiglia, così la vita pulsa in una pagina. Lia Piano ci regala uno spaccato di vita degli anni settanta, in cui, lungi dal tenere il capo chino su uno schermo, i componenti di una vitale famiglia dipingevano i muri con i colori degli animi in festa, fuggendo dai noiosi schemi intravisti nelle case degli altri.

“Diventare normali non era affare semplice. Eravamo cresciuti considerando la normalità come quella cosa noiosa e sempre identica che si vedeva nelle case degli altri, e nell’acquario del pediatra. Dove ogni tanto, infatti, un pesce gonfio galleggiava a pelo d’acqua.”.

La famiglia-tribù che a me è sempre mancata. Io ho avuto l’amore sconfinato di due genitori e le mie solitudini, che ho chiamato per nome. La Nana un mondo magico di sogni condivisi con i fratelli e la leggera e adorabile follia di mamma e papà che esortavano a salpare e insegnavano a “cazzare”.

Ho immaginato, con Nana.

Sono tornata bambina.

I libri servono a vivere altre esistenze, quelle che la parola sa regalare, quando dipinge a suo modo la vita.

Le storie come questa servono a scrivere desideri sulle pareti del cuore.

Con rinnovato incanto.

Maria Pia Romano

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