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Conversazione con Fulvio Colucci

Fulvio Colucci, giornalista, autore, fra l’altro del libro La zattera (Il Grillo Editore, 2015), ha di recente pubblicato, insieme a Lorenzo D’Alò, Ilva Football Club (editore Kurumuny).

 

Fulvio, ci ritroviamo qui a parlare di un nuovo libro, Ilva Football Club, di cui sei coautore con Lorenzo D’Alò. Come già è stato detto, una Spoon River calcistica e pugliese. Un giornalista sportivo nato al quartiere Tamburi di Taranto, dopo il sequestro dell’Ilva da parte della magistratura per disastro ambientale, ripercorre la storia di una squadra di calcio, di un quartiere e di una città strangolata dal siderurgico. Perché hai scelto, ancora una volta, invece della via dell’inchiesta giornalista, delle interviste sul campo, quella della trasfigurazione poetica, dell’intreccio fra narrativa e cronaca?

Ilva Football Club è anzitutto un’autobiografia. Sembrerà sorprendente parlare di un’autobiografia scritta a due mani; con Lorenzo abbiamo provato a lavorare sui suoi ricordi di bambino e poi ragazzo, nato e cresciuto al quartiere Tamburi di Taranto, tristemente noto perché di fatto confinante con lo stabilimento siderurgico dell’Ilva e “vittima sacrificale” dell’inquinamento. Lorenzo, capo dei servizi sportivi della redazione tarantina della “Gazzetta del Mezzogiorno”, aveva due sogni, diventare calciatore e giornalista. L’intreccio vive nella sua storia personale e nel suo incontro con il calcio operaio del rione, perché molti operai dell’Ilva (allora Italsider) giocavano cercando nel lavoro e nel football riscatto e progresso sociale. Esisteva quindi, una sorta di vocazione naturale a legare narrativa e cronaca, esperimento non facile. Il calcio come emancipazione, addirittura culturale, innestato sull’idea di lavoro che questo Paese ha coltivato dagli anni del boom economico fino all’avvento dei contratti a termine. Ma il lavoro, a Taranto, più che mai metafora italiana della grande illusione chiamata sviluppo, non ha prodotto progressione sociale trasformandosi piuttosto nel ricatto occupazionale generato dai veleni nell’aria, nell’acqua, nel suolo e quindi sui campi di calcio. Non riscatto quindi, ma ricatto. Il nodo che ha strangolato la città, che ha prodotto non l’epica del progresso ma quella dolorosa dei morti per inquinamento, malattie professionali, incidenti in fabbrica. Era chiaro che un mosaico complesso di così grandi dimensioni non respirasse dentro la “camicia di forza” dell’inchiesta giornalistica esigendo, invece, un racconto capace di comprendere tutte le tessere. Un’inchiesta giornalistica non poteva essere esaustiva, ce ne sono ormai migliaia su Taranto e l’Ilva. Peraltro alcune forme dell’inchiesta giornalistica, come il dialogo-intervista con i protagonisti del calcio operaio all’ombra delle ciminiere Ilva, sono ampiamente utilizzate pur essendo poi trasformate in narrazione da “flusso di coscienza.”

 

Perché il calcio? Fra tante possibili tematiche, perché raccontare la storia dei morti di Taranto attraverso la storia di un sogno calcistico?

Perché il calcio, in Italia, è misura di tutte le cose, ma in una vicenda come questa nessuno avrebbe pensato di ricorrere allo sport per ricostruire fatti, luoghi, personaggi. Perché era necessario raccontare un pezzo della tragedia rappresentata dalla fallita industrializzazione del Mezzogiorno attraverso una lente d’ingrandimento nuova, diversa, finora inutilizzata per una storia complessa ma rappresentativa delle contraddizioni italiane. Non dimentichiamolo: il football è stato usato per parlare di tutto, dall’economia al costume. Ci siamo detti: si può usare il calcio per raccontare cos’è stato e cos’è ancora il rapporto tra Taranto e l’Ilva? Abbiamo risposto sì e nemmeno avendo la necessità di ricorrere alla metafora perché la storia degli atleti-operai, di questa intensa, straordinaria, partita tra il quartiere e l’industria, tra la città e il siderurgico, è incisa nella carne viva di Taranto.

 

Il legame di un autore con la sua terra può essere più o meno evidente nelle opere che scrive. Nel caso di questo libro le radici tarantine degli autori sono chiarissime, ma la situazione di Taranto e dell’Ilva può essere considerata emblematica di un modo di sacrificare esigenze umane che dovrebbero essere prioritarie sull’altare di un benessere economico che poi non è neppure tale. Possiamo inserire l’opera di cui parliamo in questa riflessione più ampia?

Lo dicevo poc’anzi. Io ho scritto un altro libro sul rapporto fra Taranto e l’Ilva: Invisibili. Insieme a Giuse Alemanno mettevamo a fuoco il rapporto tra città e fabbrica attraverso il racconto degli operai che oggi lavorano nelle acciaierie, attraverso le testimonianze dei famigliari delle vittime degli incidenti sul lavoro, attraverso le parole dei bambini, anche figli di operai, che chiedono un futuro senza inquinamento, di lavoro e salute. Invisibili è apparso nel 2011, un anno e mezzo prima che la magistratura sequestrasse gli impianti dell’Ilva per disastro ambientale. Ritenevo necessario chiudere un cerchio sulla vicenda di cui mi sono occupato come cronista della “Gazzetta del Mezzogiorno”. Un impulso, una spinta, imposti dai fatti degli ultimi anni – proteste in strada, innumerevoli decreti governativi, esproprio delle acciaierie, polemiche, inchieste e processi – balzati agli onori della cronaca nazionale. Volevo farlo però, volevamo farlo con Lorenzo D’Alò, attraverso una lente diversa che mi permettesse d’ingrandire e leggere la vicenda con una lingua nuova e addirittura più facilmente comprensibile dal resto del Paese. Perché quello dell’Ilva è un dramma in cui l’Italia è chiamata a esercitare una forte azione di responsabilità politica, sociale, storica: l’industria dell’acciaio è necessaria al Paese, Taranto è una città necessaria come ha già detto qualcuno ma è stata lasciata sola, molto per colpa dei tarantini sia chiaro.

 

Durante le presentazioni del libro c’è stato un dibattito vivace? Partecipano solo gli intellettuali o anche lavoratori ed esponenti dei sindacati?

Il dibattito sull’Ilva coinvolge tutti per le ragioni appena esposte. Il libro è uscito da pochissimo, ha già suscitato discussioni, ma proprio la forza del calcio permette di abbattere gli steccati del confronto esclusivo fra “addetti ai lavori”. Permettetemi però di concludere con una testimonianza, quella della figlia di un operaio-calciatore, protagonista di Ilva Football Club, che racchiude in sé il senso del libro. Mi ha scritto ringraziandomi e dicendo: “quelle pagine hanno fatto rivivere mio padre (colpito da leucemia a 27 anni mentre lavorava all’Ilva). Sfogliandole sentivo la sua presenza e che presto lo avrei incontrato, rivedendolo in azione sul campo. Ilva Football Club è nato per restituire memoria dando così senso al futuro per non ripetere gli errori del passato. Le parole della lettrice-testimone vanno esattamente in quella direzione, dando un senso al lavoro mio e di Lorenzo. È la soddisfazione più grande.

 

Grazie, Fulvio, per il tuo tempo e le tue risposte.

 

Rosalia Messina

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