Una frase di Mary Shelley sull’immensa forza della vita

29 Gennaio 2025

Leggiamo assieme questa citazione di Mary Shelley tratta dal suo libro "L'ultimo uomo" che parla di quanto sia resiliente la vita di ognuno di noi.

Una frase di Mary Shelley sull'immensa forza della vita

Mary Shelley (30 agosto 1797 – 1 febbraio 1851), nella sua opera “L’ultimo uomo“, esplora temi profondi legati alla memoria, al dolore e alla speranza nella persistenza della somiglianza dopo la perdita. La citazione in esame sottolinea il legame invisibile tra il passato e il presente, tra ciò che è stato e ciò che continua a vivere attraverso dettagli minimi e risonanti.

C’è un potere magico nella somiglianza. Quando muore una persona che si ama, speriamo di rivederla in un altro stato, e quasi ci aspettiamo che la mediazione dell’animo informi il suo nuovo abito a imitazione di quel vestimento terreno ormai decaduto. Ma queste sono solo fantasticherie. Sappiamo che lo strumento è andato in pezzi, che l’immagine sensibile giace in frammenti miserabili, dissolta nella polvere del nulla; uno sguardo, un gesto o la forma di un arto simili a quello del defunto in una persona viva, toccano una corda vibrante la cui sacra armonia si riverbera fin nei più diletti recessi del cuore.

Mary Shelley e la forza di ricominciare, nonostante tutto

Il concetto di “potere magico nella somiglianza” affonda le sue radici nell’esperienza umana universale del lutto. Quando perdiamo una persona amata, il desiderio di ritrovarla altrove si fa struggente. Spesso crediamo, almeno per un istante, che essa possa riapparire sotto altre sembianze, che un frammento del suo spirito possa sopravvivere in un gesto, in un’espressione del volto di un estraneo, in una voce familiare. Questo sentimento, che oscilla tra la nostalgia e l’illusione, è un meccanismo di autodifesa che ci aiuta ad affrontare il vuoto lasciato dalla scomparsa.

Tuttavia, Mary Shelley smorza questa speranza definendola “fantasticheria”. Qui emerge il suo sguardo lucido e realistico sulla morte: la consapevolezza che lo “strumento” si è rotto, che il corpo non è più, che l’immagine tanto cara ora “giace in frammenti miserabili, dissolta nella polvere del nulla”. La scrittrice ci ricorda che la morte è irreversibile, che non c’è modo di riavere indietro chi abbiamo perso, almeno non nella forma concreta e tangibile che conoscevamo. La sua è una riflessione amara, ma anche profondamente umana, in linea con la sensibilità romantica che permea i suoi scritti.

Nonostante questa certezza razionale, il potere della memoria non svanisce. Anche se il corpo è polvere, il ricordo dell’essere amato continua a vivere, e si manifesta attraverso piccoli segni nella realtà circostante. Un particolare movimento del capo, una determinata inflessione nella voce, un’andatura simile a quella del defunto: questi dettagli, impercettibili agli altri, colpiscono con una forza inaspettata chi ha amato e ora si confronta con la perdita. Quando vediamo, in un’altra persona, un frammento riconoscibile del passato, si attiva in noi un’eco emotiva che fa risuonare corde profonde. È come se il cuore custodisse un’armonia sacra, un patrimonio di ricordi che si risvegliano ogni volta che incontrano una risonanza esterna.

La rinascita deve comportare per forza una perdita?

La citazione di Mary Shelley si muove dunque tra due poli: da una parte, il riconoscimento della realtà inesorabile della morte; dall’altra, la consapevolezza che la memoria ha il potere di ridestare emozioni, anche quando meno ce lo aspettiamo. Questa riflessione trova riscontro in numerose esperienze personali e culturali: il lutto non cancella completamente chi non c’è più, ma lo trasforma in un’essenza sottile che persiste nelle cose del mondo.

Nel romanzo L’ultimo uomo, Mary Shelley dipinge un futuro post-apocalittico in cui la solitudine del protagonista diventa assoluta. Egli è, appunto, l’ultimo uomo rimasto sulla Terra, e ogni legame umano che aveva un tempo è andato distrutto. Questo scenario estremo amplifica la potenza della sua meditazione sulla perdita. La sua esperienza non è solo individuale, ma rappresenta la fragilità dell’esistenza umana nella sua totalità. Attraverso la memoria e il ricordo, l’amore persiste nonostante la scomparsa fisica, e questo rende la solitudine meno insopportabile.

In conclusione, la riflessione di Mary Shelley sull’effetto della somiglianza dopo la perdita tocca corde universali. La morte, nel suo irrevocabile distacco, lascia dietro di sé tracce impercettibili che, attraverso il nostro sguardo interiore, si caricano di significato. Ogni essere umano sperimenta, prima o poi, l’emozione improvvisa e struggente di rivedere un tratto familiare in qualcun altro, di sentire un’ombra passata tornare, per un istante, nella luce del presente. È un meccanismo forse illusorio, ma profondamente umano, che conferisce al ricordo una forma di eternità e che continua a ispirare artisti, filosofi e scrittori di ogni epoca.

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