Questi versi di Louise Glück, tratti dalla poesia “Rotonda blu” presente nella raccolta Averno, evocano un dialogo profondo, quasi universale, tra il desiderio di trascendere la condizione umana e la consapevolezza della sua ineluttabilità. Con un lirismo che si confronta con le dimensioni dell’esistenza, Glück esplora le tensioni tra corpo e spirito, fra il quotidiano terreno e un ideale quasi irraggiungibile di assoluto.
“Sono stanca di avere le mani,”
lei disse,
“voglio delle ali.”
Ma cosa farai senza le tue mani
per essere umana?
“Sono stanca dell’umano,”
lei disse,
“voglio vivere sul sole.”
Il simbolismo delle mani e delle ali nella poetica di Louise Gluck
Le mani e le ali, i due elementi centrali dei versi, rappresentano due opposti archetipici dell’esperienza umana.
Le mani sono strumenti della fisicità, simboli dell’azione, della capacità di costruire, toccare, creare e interagire con il mondo concreto. Sono l’emblema della nostra umanità e della necessità di confrontarci con la materia e con i limiti della carne. Le mani, però, portano con sé anche un peso emotivo: l’obbligo del fare, dell’afferrare, del risolvere problemi terreni. È in questo senso che la protagonista del testo si dice “stanca di avere le mani”. La stanchezza rappresenta una ribellione al fardello della quotidianità e delle sue incombenze, quasi come se la fisicità delle mani fosse una catena che la trattiene al suolo.
Le ali, al contrario, simboleggiano l’anelito verso una dimensione superiore, libera dai vincoli della materia e del tempo. In molte culture e tradizioni, le ali rappresentano la spiritualità, la trascendenza, la possibilità di volare al di sopra del mondo fisico per raggiungere una dimensione celeste. L’aspirazione alle ali è dunque il desiderio di superare i confini dell’umano, di vivere in una condizione priva di restrizioni, dove regna una libertà assoluta.
La protagonista dei versi dichiara di essere “stanca dell’umano”. Questa affermazione appare radicale, ma è carica di significati esistenziali. L’essere umano è intrinsecamente limitato: condizionato dalla finitezza del corpo, dall’inevitabilità del tempo, dalla fragilità emotiva. Nella poetica di Louise Glück, questo limite è spesso vissuto come un peso che genera insoddisfazione e inquietudine.
“Stanca dell’umano” non implica solo un rifiuto delle mani, ma un rigetto più ampio delle esperienze e delle fatiche che definiscono la nostra natura. Questo desiderio di superamento riflette il senso di disagio che molti provano nei confronti della propria condizione mortale, fragile, eppure insistentemente ancorata alla realtà.
Il sole come luogo di purezza e trasformazione
Nel desiderio di “vivere sul sole” si intravede un impulso estremo verso la purezza e la trasformazione. Il sole, in questo contesto, può essere interpretato in due modi complementari.
Da un lato, il sole è fonte di luce e calore, simbolo del divino e dell’immortalità. Vivere sul sole equivale a trascendere completamente la sfera terrestre per immergersi in una dimensione assoluta e perfetta. È il sogno di una nuova esistenza libera dalle fatiche e dalle contraddizioni che definiscono l’umanità.
Dall’altro lato, però, il sole è anche un luogo inaccessibile, ardente, e potenzialmente distruttivo. Desiderare il sole può significare aspirare a qualcosa di impossibile, bramare una condizione che è per natura estranea alla nostra. Questo sogno di perfezione può, quindi, rivelarsi pericoloso, segno di una fuga dalle responsabilità del vivere e dalla necessità di accettare i propri limiti.
La conversazione interna nei versi di Louise Glück non offre una risoluzione semplice. La domanda “Ma cosa farai senza le tue mani per essere umana?” sottolinea il dilemma insito in ogni aspirazione alla trascendenza. Rifiutare le mani significa anche rinunciare a ciò che ci rende umani, perdere la connessione con gli altri e con il mondo che ci circonda. È possibile desiderare una realtà alternativa senza negare completamente ciò che siamo?
La poesia non fornisce una risposta definitiva, ma ci invita a riflettere sulla natura stessa della nostra condizione. Possiamo accettare i limiti imposti dalla nostra umanità senza tradire il desiderio di elevarci? Oppure dobbiamo costantemente oscillare tra questi due poli, cercando di bilanciare l’accettazione della nostra natura e l’impulso verso qualcosa di più grande?
I versi di Glück trovano risonanza in un mondo contemporaneo in cui l’insoddisfazione per l’ordinario è comune. Viviamo spesso prigionieri delle nostre “mani”, cioè del quotidiano, del materiale, eppure aspiriamo costantemente a una dimensione che ci permetta di superare le nostre limitazioni. La poesia di Louise Glück ci invita a interrogarci su questa tensione, a domandarci se il nostro desiderio di “vivere sul sole” sia una fuga o una legittima aspirazione a qualcosa di superiore.
Forse la vera risposta sta nel riconoscere che la nostra forza risiede proprio in questa tensione: nel fatto che, pur essendo intrinsecamente legati al suolo, possiamo guardare verso l’alto, sognare e, nel farlo, dare un senso più profondo alla nostra esistenza.