Ho riflettuto a lungo su quelle sue ultime parole. Non stava morendo né era in partenza per un lungo viaggio né aveva intenzione di dirmi addio. Erano parole come tante altre già dette, eppure sulla sua bocca, ne sono certa, quelle parole non si sarebbero mai più posate: “L’amore vero forse esiste. E l’anima gemella è chi ha tuoi stessi rimpianti”. Furono l’epilogo di un lungo discorso, le pronunciò solennemente, e poi tacque. Stordita da quel silenzio improvviso, mi accoccolai sul suo petto, ascoltai ogni suo battito e ansimai a ogni suo respiro. Quella notte feci solo finta di dormire, mentre riflettevo su ciò che aveva detto, su ciò che pensava, su ciò che noi due eravamo.
Non aveva mai creduto nell’amore, sosteneva di non poter credere in qualcosa che non aveva mai provato. Diceva che l’amore era il profeta ateo del per sempre, un profeta che troppe volte aveva già fallito. Non credeva nell’amore, sosteneva di non averlo mai provato, ma era certo di amarmi: dopo dieci anni insieme, questa la sua conclusione. Mi aveva chiesto di sposarlo, quella notte. Ecco tutto. E io accettai, sembrerà assurdo, ma accettai di dire sì alla sua apatia, ai suoi silenzi, alla sua paura di rimetterci sempre qualcosa. Ci fu un tempo in cui parlavamo, ed era facile parlare, le parole venivano giù come viene la pioggia da una nube. Era facile pensare che tutto andasse bene, che tutto scorresse liscio, che tutto sembrasse bello… bastava solo evitare di dirlo a voce alta. Ma poi iniziammo a guardarci senza sfuggire gli sguardi, a fare l’amore con i corpi e non con i pensieri che andavano chissà dove, a mangiare in silenzio senza screzi o sorrisi…
Innamorarsi è un momento, amarsi sono tutti gli altri giorni. Era stata questa la nostra fatidica scoperta. “Siamo esseri umani, animali che progettano di vivere invece che farlo davvero: idealisti poco convinti delle loro stesse convinzioni. Siamo creature che cedono all’amore perché temono la solitudine e non sopportano la routine” Quella notte mi disse anche questo, fu proprio con questa frase che introdusse il discorso. Se ne stava seduto lì sul letto, con lo sguardo fisso, rivolto allo Chagall che avevamo scelto come capezzale, e scandiva lentamente ogni parola. Quella sua lentezza mi spiazzava, mi intimidiva: lui parlava con me e fissava il vuoto, mi chiedeva di sposarlo e non aveva il coraggio di guardarmi in faccia per tener fede al suo dannato orgoglio. Ma io lo assecondavo, perché per un attimo, dopo tanti anni, avevo ritrovato in lui l’uomo carismatico e passionale di un tempo: mi stava conquistando un’altra volta, sotto gli occhi due amanti che, avvolti dal blu, si amavano senza la necessità e la volontà di dover definire parola “amore”.
Quando io ed Ettore ci siamo conosciuti, quando abbiamo scelto di sceglierci tra tanti altri, la nostra vita era diversa, era simile a uno di quei dipinti che dipingeva, che criticavo, che tanto ci univano. Lui era un nichilista convinto anche allora, eppure riusciva a non farmi pesare le sue convinzioni. Non mi ha mai detto “ti amo”, è vero, non ha mai definito la nostra relazione un rapporto d’amore, ma coi suoi gesti discreti riusciva a sanare i miei dubbi. Ho sempre giustificato il suo narcisismo, il suo fare odioso da filosofo illuminato; in fondo lui è un artista, un uomo eclettico e profondo che ha bisogno di credere in se stesso più di chiunque altro, mi ripetevo. Ci siamo incontrati per la prima volta a una mostra di Magritte che io stessa avevo organizzato; ci ritrovammo in piedi davanti a Gli amanti: un uomo e una donna che si baciano a volto coperto, che a malapena di sfiorano, che non parlano, che nemmeno riescono a vedersi, a conoscersi davvero… quel quadro eravamo, siamo noi. Il nostro primo incontro fu una dolce e maledetta premonizione.
Mi sono tormentata troppo in questi giorni, lo so. La colpa è di questo destino che continua a giocarmi brutti scherzi: ci ho messo anni ad accettare la sua repulsione nei confronti dell’amore dichiarato, e adesso è lui, Ettore, a farlo riemergere dal caos ordinato che gli nuota dentro. Ho riflettuto tanto, cercando nei ricordi una chiave per aprire questa nuova porta che mi ha messo davanti. È stato difficile, e lo sarà ancora. Mi guarda con lo sguardo enigmatico, si ostina a mascherare le emozioni persino oggi. È schivo, algido, composto… però mi aspetta con ansia, lo percepisco dal fremito delle sue mani. Mi invita, con uno sguardo ora complice, a guardare verso sinistra: come stola del pulpito c’è una tela, ci sono gli ennesimi amanti, l’ennesimo bacio titubante ma intenso e surreale, quasi mistico: quello di Klimt. Un bacio che fa da cornice al nostro, dopo il primo reciproco “Sì!”.
Mariapia Crisafulli