Sei qui: Home » Libri » Perché i beni culturali italiani sono “Un patrimonio da riconquistare”

Perché i beni culturali italiani sono “Un patrimonio da riconquistare”

Intervista a Federico Giannini, autore di “Un patrimonio da riconquistare”, il libro che spiega in che modo valorizzare il patrimonio artistico italiano

MILANO – “Il patrimonio culturale è diventato oggetto di un mercimonio indegno che ha messo in secondo piano la sua vera importanza, ovvero quella di formare persone pensanti.” E’ quanto affermato da Federico Giannini, autore di “Un patrimonio da riconquistare”, il libro che vuole sottolineare come non può esistere una valorizzazione economica dei nostri monumenti e beni culturali se non esiste capacità di investire, di promuovere, di formare, di organizzare, di pensare. In questa intervista Federico, insieme ad Ilaria Baratta autore e responsabile di “Finestre sull’Arte“, blog e podcast tra i più seguiti in Italia dedicato alla storia dell’arte, ci spiega in che modo impedire che il patrimonio artistico italiano diventi merce di scambio e al contempo analizza gli strumenti efficaci, tra essi i social network, per sostenere la cultura in modo adeguato.


Titolo del libro è “Un patrimonio da riconquistare”. Perché secondo te questo patrimonio non è più da tempo nelle mani dei legittimi proprietari?

Perché da troppo tempo il patrimonio culturale è diventato oggetto di un mercimonio indegno che ha messo in secondo piano la sua vera importanza, ovvero quella di formare persone pensanti. Purtroppo questa parabola va avanti da un paio di decenni almeno, e non soltanto in Italia: il nostro paese è però tra quelli che si adoperano meno per impedire che il patrimonio diventi merce di scambio e al contempo per sostenere la cultura in modo adeguato. Nel nostro paese il valore culturale del patrimonio è stato messo in secondo piano rispetto a quello economico, e per di più, anche sul lato della valorizzazione economica tout court, non abbiamo ottenuto grandi risultati, anzi: l’Italia non è stata in grado neppure di mettere in atto una seria politica di valorizzazione. Abbiamo assistito, al contrario, a una politica di continui tagli alla cultura che ha messo in serissime difficoltà il settore. È stata avviata una politica di riforme dagli ultimi due governi, ma questo non ha comunque dato alcuna risposta a tutti quegli interrogativi che necessitavano di essere gestiti in maniera diversa, interrogativi che riguardano la fruizione del patrimonio, la mancanza di lavoro, la comunicazione, la riorganizzazione del ministero dei beni culturali per renderlo più snello e più efficiente. È mancata, in sostanza, negli ultimi tempi, attenzione e cura nei confronti dei cittadini, e allo stesso tempo il patrimonio è stato per troppe volte ostaggio di interessi particolari. Per il futuro occorrerà invertire la tendenza: chiaramente suona retorico ma non vedo altre possibilità.

 

Marketing e arte: due mondi apparentemente diversi ma che attualmente cercano di incontrarsi. Il valore pedagogico e culturale del nostro patrimonio artistico può andare di pari passo con il suo valore “economico”, secondo molti capace di rappresentare un opportunità di crescita del Paese? Perché?

Certo, “marketing” non è una parola da aborrire. Ma il marketing dovrebbe servire alla cultura, non dovrebbe accadere il contrario. E soprattutto occorre tener presente che il valore culturale del patrimonio viene sempre al primo posto. Fatta questa premessa si potrebbe anche pensare di parlare di patrimonio come “opportunità di crescita”, da questo punto di vista ci sono stati tantissimi studi volti a dimostrare quanto un’adeguata valorizzazione economica del patrimonio potesse giovare al rilancio della nostra economia. Tuttavia è anche vero che in mezzo a un mare di retorica è davvero difficile trovare studi seri. E gli studi seri dimostrano che la capacità di un paese di generare un’economia dalla cultura non è legata alla “quantità”, tra virgolette, di patrimonio presente in un paese, ammesso che sia possibile fare una conta di quanto patrimonio possieda una nazione… gli unici dati seri che si potrebbero prendere in considerazione sono gli elenchi di siti presenti nel patrimonio dell’umanità dell’Unesco. E appunto non esiste una correlazione proporzionale tra quantità di siti e occupazione nel settore della cultura: la Francia, per esempio, ha un rapporto tra siti Unesco e superficie del territorio pari a un terzo di quello dell’Italia, ma ha una percentuale di occupati nel settore cultura sul totale della popolazione attiva che è circa il doppio rispetto alla nostra. Questo ci dà misura del fatto che non può esistere una valorizzazione economica se non esiste capacità di investire, di promuovere, di formare, di organizzare, di pensare. Disporre di un patrimonio vasto non è condizione sufficiente per trarne opportunità di crescita.

 

Cultura e turismo: perché secondo te è stato un errore integrarli all’interno della riforma dei Beni Culturali voluta dal Governo?

Legare cultura e turismo non è un errore a priori, c’è una crescente domanda di turismo culturale e quindi occorre farci i conti, soprattutto per renderlo sostenibile, cosa che in Italia non è certo stata fatta. È un errore legare cultura e turismo quando mancano indirizzi, manca una progettualità, mancano le competenze e soprattutto manca la capacità di formare le competenze. E ancora oggi, a tre anni di distanza dall’affidamento delle competenze per il turismo al ministero dei beni culturali, non si vedono politiche d’indirizzo.

 

Conservazione e valorizzazione dei beni artistici: è giusto separare le due aree oppure devono essere competenza di uno stesso ente?

L’Italia vanta in questo senso una solidissima tradizione, a cui tutto il mondo ha guardato: nel nostro paese tutela e valorizzazione sono sempre andate di pari passo perché sono sempre state affidate a un unico ente, le soprintendenze, tanto che fino a diverso tempo fa non aveva neppure senso distinguere tra tutela e valorizzazione, proprio perché attività inscindibili. Nel libro faccio l’esempio di Bologna: l’arte bolognese si è ritagliata un ruolo da grande protagonista nella storia dell’arte anche perché, nel Novecento, alla soprintendenza bolognese hanno lavorato storici dell’arte di enorme spessore come Francesco Arcangeli, Cesare Gnudi, Andrea Emiliani e moltissimi altri, che hanno saputo organizzare, assieme all’università, mostre di elevatissimo valore culturale che hanno mostrato al mondo intero l’importanza dei grandi artisti bolognesi e al contempo hanno ottenuto un vasto successo di pubblico. Tutto questo è stato possibile proprio perché non esisteva una contrapposizione tra tutela e valorizzazione. È chiaro che oggi, per esempio, la comunicazione ha bisogno di competenze particolari, ma occorre che tutti lavorino in modo congiunto, per questo credo che la separazione tra tutela e valorizzazione sia nient’altro che un prodotto ideologico di certa politica che vorrebbe rendere il patrimonio ancora più soggetto a interessi particolari.


Federico Giannini nella Galleria Palatina a Palazzo Pitti  a Firenze
Federico Giannini nella Galleria Palatina a Palazzo Pitti a Firenze

 

Nel libro si parla di Expo: l’esposizione universale dello scorso anno è stata sfruttata a dovere dal punto di vista artistico? Eventualmente, in cosa si è sbagliato?

Non mi piace parlare del patrimonio in termini di “sfruttamento” né credo che fine dell’Expo dovesse essere quello di servirsi del patrimonio per lanciare se stessa, o per non so cos’altro. Sarebbe stato sufficiente promuovere quello che già c’era, piuttosto che lanciarsi in faraoniche imprese, velleitarie sotto qualunque profilo culturale e probabilmente anche economico. Da questo punto di vista ritengo che i migliori progetti siano emersi da piccole realtà provinciali che, facendo leva esclusivamente sul proprio patrimonio, sono state in grado di presentarlo “in chiave Expo”, nel senso che hanno saputo rileggerlo sulla base dei temi dell’esposizione universale… penso per esempio al progetto “Semi” dell’Emilia Romagna, ma anche alle tante piccole mostre, sparse sul territorio, intorno ai temi della nutrizione. Sarebbe stato quindi più sensato investire di più per una promozione del patrimonio diffuso.

 

Politici, addetti ai lavori, gente comune: da chi deve partire in primis la “riforma culturale”? Come le nuove tecnologie ed i mezzi di comunicazione che danno voce alla gente comune, intendiamo social network e blog, possono favorire tale riforma?

La prima, vera, riforma culturale di cui avrebbe bisogno il paese è una riforma della mentalità: non basta sapere di avere un patrimonio, dobbiamo iniziare ad avere con questo patrimonio una maggiore confidenza. Secondo un rapporto dell’Istat riferito al 2014, in quell’anno solo il 28% degli italiani aveva visitato una mostra o un museo: è da qui che bisogna partire, e come giustamente fai notare credo che social network, blog e in generale canali di comunicazione via internet possano giocare un ruolo fondamentale per favorire un avvicinamento dei cittadini al patrimonio. Come “Finestre sull’Arte” abbiamo condotto un sondaggio, qualche settimana fa, a cui hanno risposto più di mille persone, e una delle domande chiedeva agli intervistati se avevano mai visitato una mostra perché ne avevano sentito parlare sui nostri canali: ha risposto in modo affermativo più del 50% del campione. Un risultato importante perché dimostra come il web abbia una notevole importanza che ormai non può più essere sottovalutata.

 

© Riproduzione Riservata