L’11 novembre la Chiesa ricorda San Martino di Tours, martire cristiano che prima di convertirsi e divenire vescovo era un legionario romano. Per l’occasione, condividiamo con voi “San Martino“, la poesia forse più famosa di Giosuè Carducci, quella che tutti abbiamo imparato a scuola e che ancora oggi, dopo anni, ricordiamo come il primo giorno.
Il celebre componimento di Carducci è contenuto nella raccolta delle “Rime nuove“, pubblicata per la prima volta nel 1887 da Zanichelli.
San Martino di Giosuè Carducci
La nebbia agl’irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;ma per le vie del borgo
dal ribollir de’ tini
va l’aspro odor de i vini
l’anime a rallegrar.Gira su’ ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
sull’uscio a rimirartra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri,
com’esuli pensieri,
nel vespero migrar.
Delizia e malinconia di un giorno di festa
In occasione della festa di San Martino, soprattutto in passato, si era soliti trascorrere una giornata di celebrazioni e festosi banchetti tutti insieme.
Nei borghi e nei villaggi italiani la gioia si irradiava di strada in strada, di famiglia in famiglia. La ricorrenza di San Martino diventava un’occasione per riunirsi, mangiare dolci, e bere il vino nuovo frutto della vendemmia estiva. Questa è una delle due atmosfere in cui veniamo catapultati leggendo la celebre poesia di Giosuè Carducci.
Il componimento è infatti composto come da due anime: le due strofe centrali sono quelle in cui il poeta racconta la festa, la gioia scoppiettante, calda, avvolgente, del borgo che pullula di gente e di allegria.
In particolare, nella seconda strofa Carducci si sofferma sulla fermentazione del mostro dei tini, il cui odore diffuso rallegra l’animo delle persone. Nella terza sfrofa, il cacciatore sulla soglia di casa fischietta, contento che la sua caccia contribuisca a rendere l’atmosfera gioiosa, e resta fermo ad osservare la brace accesa e scoppiettante su cui gira lo spiedo.
La prima e l’ultima strofa, invece, raccontano qualcosa di molto diverso: il paesaggio freddo e nebbioso dell’autunno inoltrato, insieme allo stormo di uccelli migratori rispecchiano i pensieri malinconici di Carducci, che vagano, senza meta, e sovrastano la felicità degli abitanti del borghetto toscano.
Nello specifico, il primo verso da spazio al racconto del paesaggio autunnale con la nebbia, la pioggia, gli alberi spogli e il mare agitato a causa del vento Maestrale. L’ultima strofa vede protagonisti gli uccelli che al tramonto migrano verso una meta lontana, metafora dei pensieri e delle preoccupazioni che, almeno per un giorno, si allontanano dalle teste della gente.
Le “Rime nuove” di Giosuè Carducci
“Rime nuove”, da cui è tratta la più celebre poesia di Giosuè Carducci, è una delle principali raccolte dell’autore toscano nato il 27 luglio 1835 a Valdicastello, vicino Lucca. Fu pubblicata per la prima volta nel 1887 presso l’editore Zanichelli e include poesie composte nel ventennio precedente.
La raccolta comprende 105 liriche suddivise in nove libri. Varie le tematiche affrontate: dalle celebrazioni della storia nazionale a fatti recenti, come la vittoria francese a Valmy. Notevoli sono soprattutto le composizioni di ispirazione intimistica e nostalgica, come la trilogia maremmana, le liriche dedicate al figlioletto, San Martino, ecc.
Rispetto alle “Odi barbare” e agli esperimenti precedenti, le liriche raccolte in “Rime nuove” hanno un legame molto forte con la tradizione poetica italiana. Lo si vede tanto negli schemi metrici quanto negli argomenti trattati.
Nel 1890, Giosuè Carducci diventa il vate dell’Italia umbertina e viene nominato senatore del Regno. La sua carriera viene coronata dall’ottenimento del premio Nobel per la letteratura nel 1904. A pochissimi anni da questo meritato successo, Giosuè Carducci viene a mancare per una broncopolmonite: è il il 16 febbraio del 1907.