Giugno è il mese in cui l’aria cambia, il ritmo rallenta e la voglia di letture nuove si fa sentire con più forza. Che si sia già in vacanza o ancora in attesa di una pausa, l’inizio dell’estate è il momento perfetto per concedersi le ultime novità letterarie, un libro appena uscito, una voce fresca o un saggio che ci faccia riflettere. Le novità di queste settimane accontentano ogni lettore: dalla narrativa d’autore ai romanzi d’evasione, dai thriller alle storie familiari, fino ai saggi che aiutano a comprendere il presente o a riscoprire il passato sotto una nuova luce.
In questa selezione troverete titoli per tutti i gusti, scelti tra le uscite più interessanti di inizio giugno, tra piccole scoperte, grandi ritorni e gemme da non lasciarsi sfuggire. Perché non c’è stagione migliore dell’estate per rinnovare la propria biblioteca personale.
Giugno: le novità letterarie di queste prime settimane da leggere assolutamente
Leggere una novità editoriale significa anche partecipare a una conversazione contemporanea, farsi attraversare da parole che appartengono al nostro tempo e che lo raccontano, con delicatezza, forza, ironia o lucidità. In queste prime settimane di giugno, le librerie si riempiono di storie che interrogano il mondo, di saggi che aprono nuove prospettive, di romanzi che emozionano o scuotono. Lasciarsi guidare dalla curiosità, abbandonare le certezze e scoprire nuove voci: è questo il bello di una stagione che invita a uscire… o a restare in compagnia di un buon libro.
Irrisolti. 10 crimini italiani, vittime senza giustizia di Francesca Zanni
Ci sono storie che non si chiudono mai davvero. Rimangono sospese nel tempo, senza colpevoli, senza verità definitive, come ferite aperte nella memoria collettiva. Irrisolti di Francesca Zanni è un viaggio lucido e necessario attraverso dieci crimini italiani che, pur avendo scosso l’opinione pubblica, non hanno mai trovato giustizia.
Il libro si legge come un noir documentario. Ma a ogni pagina ci si rende conto che non si tratta solo di cronaca: è una riflessione civile sulla fragilità delle istituzioni, sulle complicità del silenzio, sui meccanismi della rimozione. Zanni non scrive per alimentare il voyerismo del true crime, ma per dare corpo e voce a quelle vite interrotte, che rischiano altrimenti di restare numeri in fondo a un faldone.
Dal mistero della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, al più recente e mediaticamente controverso caso David Rossi, passando per tragedie dimenticate che coinvolgono bambini, donne, individui vulnerabili, ogni capitolo è ricostruito con rigore giornalistico e tensione narrativa. L’autrice si muove tra atti giudiziari, interviste, testimonianze e archivi, ma è capace di restituire ai lettori non solo i fatti, ma anche le atmosfere, il senso di vuoto e la sete di verità che permeano questi eventi.
I crimini che Zanni racconta non sono solo “irrisolti” perché mancano i colpevoli: sono fallimenti sistemici, vicende segnate da depistaggi, omissioni, piste ignorate. La domanda che sottende ogni storia è sempre la stessa: cosa ci dice questa ingiustizia su di noi, oggi? La risposta, implicita e dolorosa, è che un Paese che dimentica è un Paese che rischia di ripetere.
Un elemento forte del libro è l’empatia con cui l’autrice restituisce l’umanità delle vittime. Ogni capitolo si apre come un’indagine, ma si chiude come un piccolo requiem civile. Non ci sono facili colpi di scena né soluzioni consolatorie. Solo il peso delle domande inevase, e il coraggio di affrontarle.
Lo stile di Francesca Zanni è limpido e serrato. Non cerca l’effetto, non indulge nel morboso. Ogni parola è scelta con misura, ogni ricostruzione è sorretta da fonti solide. Ma ciò che davvero colpisce è la postura etica: Zanni scrive con rispetto, con senso di responsabilità, come se ogni storia fosse un appello. E in effetti lo è.
Tra i casi analizzati troviamo non solo episodi noti ma anche storie marginali, dimenticate dai media o archiviate troppo in fretta. E proprio qui sta uno dei meriti maggiori del volume: restituire luce a chi è rimasto nell’ombra. Dare nome, volto e contesto a esistenze spezzate da violenza, disattenzione, potere.
Irrisolti non è un libro che offre risposte, ma è un libro che obbliga a fare domande. A chiedersi perché alcune vite valgano meno di altre nel racconto pubblico. A riflettere su quanto la giustizia sia spesso una promessa incompiuta. A capire che ogni verità negata è una crepa nella nostra democrazia.
In un’epoca in cui la cronaca nera è spesso spettacolarizzata, Zanni sceglie una via diversa: ascoltare, ricostruire, raccontare senza retorica. Il risultato è un libro potente, che si legge d’un fiato e resta addosso. Perché ogni caso irrisolto è, in fondo, una domanda aperta a tutti noi.
Miti e leggende del Medioevo di Andrea Gualghierotti
Ci sono libri che sembrano usciti da un manoscritto miniato, e Miti e leggende del Medioevo ne è un esempio perfetto. Curato nei dettagli estetici, illustrato con uno sguardo che coniuga il rigore iconografico e l’immaginazione fiabesca, questo volume pubblicato da NuiNui è un piccolo gioiello per chi ama le storie antiche, i miti cavallereschi e la suggestione del fantastico medievale.
In sedici racconti, scelti e rielaborati da Andrea Gualchierotti, storico specializzato in Medioevo, il lettore si ritrova immerso in un mondo popolato da fate, cavalieri erranti, streghe, creature leggendarie e re dimenticati. Ogni leggenda è una porta che si apre su un’epoca in cui il reale e l’immaginario convivevano senza conflitto, in cui la fede e la superstizione si intrecciavano in narrazioni orali destinate a sopravvivere per secoli.
Le storie qui raccontate spaziano dalla Britannia arturiana alla Germania delle saghe teutoniche, dalla Francia delle chanson de geste alle pianure scandinave. Non mancano figure iconiche come Merlino, Lancillotto, Viviana, ma c’è spazio anche per storie meno note, riscoperte tra le pieghe di codici e cronache antiche. Gualchierotti dimostra una grande capacità di riscrivere senza semplificare, restituendo al lettore moderno il fascino del racconto originario ma con una limpidezza narrativa contemporanea.
Ma ciò che rende davvero unico questo volume è l’apparato visivo: Joana Fraga illustra ogni storia con tavole ricche di dettagli, bordi ornamentali ispirati alla miniatura medievale, e una palette cromatica che evoca l’incanto delle vetrate gotiche. Le illustrazioni non si limitano a decorare: accompagnano la lettura come visioni, moltiplicando il senso della meraviglia e offrendo continue suggestioni simboliche.
Il libro ha la struttura di una raccolta antologica, ma ogni racconto è introdotto da un breve contesto storico o culturale, che aiuta a situare la leggenda nel suo alveo originario. In questo modo, la lettura si fa anche esperienza didattica, senza mai perdere la leggerezza del tono fiabesco. È un testo che può parlare a lettori di tutte le età: ai bambini, per la magia delle storie; agli adulti, per la ricchezza del sottotesto culturale.
Uno degli aspetti più interessanti di questa raccolta è l’insistenza sul rapporto tra l’uomo e il mistero: che si tratti di un cavaliere che si perde nella foresta o di una donna incantata prigioniera di un lago magico, ogni vicenda racconta un momento in cui il quotidiano si apre all’impossibile. La leggenda medievale non è mai solo evasione: è una forma di conoscenza poetica, un modo per esplorare l’invisibile e dare un senso simbolico agli eventi della vita.
Gualchierotti ci guida tra le pieghe dell’immaginario medievale con precisione e passione, dimostrando che la leggenda non è mai passata di moda, anzi: in un tempo che sembra aver perso i suoi miti fondatori, recuperare queste narrazioni significa riscoprire una lingua dell’anima.
Un volume da leggere, da sfogliare, da regalare. Da custodire come una reliquia letteraria. Perché ogni leggenda è, in fondo, una verità camuffata da sogno. E Miti e leggende del Medioevo ci ricorda che i sogni più belli sono quelli che resistono nei secoli.
Sua Venerabilità si risveglia. L’husky e il suo gatto bianco Shizun di Bu Chi Rou Rou Bao
Se nel primo volume L’Husky e il suo gatto bianco Shizun ci aveva introdotto in un universo narrativo stratificato, complesso e dominato da emozioni potenti, il secondo volume alza la posta, tanto in termini di intensità psicologica quanto di dinamiche sentimentali e sovrannaturali. Sua Venerabile Maestà si è risvegliato è il capitolo del confronto, della resa dei conti con il passato e del graduale disvelamento di una verità molto più intricata di quanto il protagonista stesso possa immaginare.
Mo Ran, rinato con il ricordo vivido e devastante della sua vita precedente, si trova costretto a ripercorrere le tappe di un destino segnato dal dolore e dalla vendetta. Ma il mondo attorno a lui non è più lo stesso. Le certezze vacillano. Chu Wanning, il maestro freddo e intransigente che tanto aveva odiato nella vita passata, ora si mostra in tutta la sua complessità. E ogni gesto, ogni silenzio, ogni sacrificio del maestro diventa un tassello che rimette in discussione tutto ciò che Mo Ran credeva di sapere.
Questo secondo volume si spinge oltre i canoni del danmei e del fantasy wuxia, proponendo una narrazione dove la linea tra amore e odio, fra colpa e redenzione, si fa sempre più sfumata. La scrittura, fluida e carica di pathos, costruisce con sapienza l’intreccio psicologico che regge l’intero romanzo: Mo Ran si muove in una spirale di dubbi e inquietudini, guidato non più dalla vendetta, ma dal desiderio di cambiare il corso di una storia già scritta col sangue.
Il passato lo insegue, incarnato in un nemico oscuro che sa troppo, che manipola, che semina morte con disarmante precisione. La tensione narrativa cresce, come pure la complicità forzata tra Mo Ran e Chu Wanning, che diventano alleati in una battaglia che è prima di tutto interiore. La relazione tra i due, fatta di distanze incolmabili, fraintendimenti e attrazioni taciute, si carica di una delicatezza struggente.
La bellezza di questo volume risiede proprio nella sua capacità di rendere credibili personaggi che agiscono mossi da sentimenti contraddittori, e nel modo in cui la trama unisce azione, introspezione e riflessione sul perdono. È un romanzo che parla di seconde possibilità, e lo fa con forza viscerale.
La traduzione italiana di Giulia Massai è ancora una volta efficace e rispettosa del tono lirico e incalzante dell’opera originale. Il lavoro editoriale di Mondadori restituisce l’eleganza del progetto grafico, arricchito da illustrazioni evocative che riescono a rendere giustizia al fascino visivo dell’universo creato da Meatbun.
In un momento in cui il genere boys’ love si sta affermando anche sul mercato italiano, L’Husky e il suo gatto bianco Shizun rappresenta una delle proposte più mature, potenti e letterarie. Un fantasy dai toni cupi e al tempo stesso poetici, che attraversa le tematiche del trauma, della memoria e dell’amore in forme non convenzionali, mai banali.
Per chi ha amato il primo volume, questo secondo episodio è un appuntamento imperdibile. Per chi non ha ancora iniziato la saga, è il momento di recuperare uno dei fenomeni letterari più appassionanti venuti dalla Cina contemporanea.
La grammatica delle immagini di Sara Munari
Cosa racconta davvero una fotografia? È solo un ricordo visivo o può diventare parola, emozione, idea, critica? Con La grammatica delle immagini, Sara Munari risponde a questa domanda con la chiarezza e la passione di chi vive la fotografia non solo come tecnica, ma come strumento profondo di comunicazione. Il suo non è semplicemente un manuale, ma un viaggio attraverso i meccanismi segreti dell’immagine, un percorso pensato per chi vuole imparare a guardare, e a farsi guardare, in modo consapevole.
Il punto di partenza è semplice, ma rivoluzionario: la fotografia è un linguaggio, e come tale ha una grammatica. Munari guida il lettore attraverso le sue regole fondamentali: dalla gestione della luce e della composizione fino all’uso consapevole del colore, mostrando come ogni scelta, tecnica o estetica, abbia un impatto narrativo preciso. Il triangolo dell’esposizione, la profondità di campo, le inquadrature, le geometrie, le diagonali: ogni elemento è analizzato non solo nella sua funzione tecnica, ma anche nel modo in cui può influenzare la lettura di un’immagine.
Ma questo libro va oltre. Munari ci mostra come le immagini parlano dentro contesti culturali e personali, come attivano emozioni, riflessioni, costruzioni simboliche. L’autrice analizza i diversi generi fotografici, dal documentario all’artistico, dal reportage allo scatto concettuale, e riflette su come ogni stile contribuisca a una diversa forma di narrazione. Fotografia, dunque, come racconto. Come modo per abitare il mondo.
Particolarmente interessanti sono le sezioni dedicate alla percezione: come leggiamo un’immagine? In che modo il nostro vissuto influenza il modo in cui interpretiamo una fotografia? Munari integra in modo accessibile principi di semiotica, psicologia della visione e cultura visiva, offrendo al lettore gli strumenti per andare oltre la superficie. Una fotografia, ci ricorda, non è mai neutra.
Attraverso esercizi mirati, domande aperte e schede pratiche, La grammatica delle immagini diventa anche un laboratorio di autoanalisi visiva. Non solo insegna a leggere meglio le immagini degli altri, ma ci spinge a guardare dentro i nostri scatti, a individuare i punti deboli, le incoerenze, e a rafforzare la nostra voce fotografica. Lo stile dell’autrice è diretto, limpido, ma mai didascalico: Munari riesce a essere tecnica e narrativa allo stesso tempo, con esempi reali, fotografie commentate e riferimenti alla grande storia dell’immagine.
Il volume si rivolge tanto a chi sta muovendo i primi passi nel mondo della fotografia, quanto a chi desidera approfondire e dare coerenza al proprio percorso. È uno strumento prezioso anche per chi lavora con l’immagine in senso più ampio: grafici, artisti visivi, comunicatori, docenti. Perché, come sottolinea l’autrice, viviamo in un’epoca in cui la comunicazione visiva domina – e sapere “parlare” il linguaggio delle immagini è oggi una competenza cruciale.
La grammatica delle immagini è, in definitiva, un libro che insegna a vedere. Ma anche a scegliere. Perché ogni fotografia, anche la più semplice, può diventare un atto intenzionale, un gesto di espressione, uno strumento di senso.
Scatta come Wes di Adam Woodward
Immaginate di camminare in una stazione deserta al tramonto. Le luci sono calde, l’inquadratura perfettamente centrata, i colori vibrano di nostalgia. In quell’istante, tutto sembra parte di un film di Wes Anderson. Scatta come Wes è un manuale che trasforma questa sensazione in possibilità concreta: insegna a guardare il mondo con lo stesso sguardo con cui Anderson lo filma.
A metà tra guida tecnica e dichiarazione d’amore per l’estetica andersoniana, questo libro è una vera e propria immersione nell’universo visivo del regista texano. Ogni pagina è un invito a rallentare, osservare e costruire immagini che, pur ispirandosi ai suoi film, raccontano qualcosa di profondamente personale. Non è un semplice libro di fotografia: è un esercizio di stile, un atto creativo, un’ode alla bellezza della composizione.
Diviso in sezioni tematiche, il volume affronta gli elementi chiave dello stile Wes: la simmetria, la palette pastello, la profondità di campo ridotta, i dettagli retrò, le composizioni studiate al millimetro. Attraverso esempi tratti da pellicole come Moonrise Kingdom, Grand Budapest Hotel, The Royal Tenenbaums, Isle of Dogs e The French Dispatch, gli autori spiegano come replicare, o meglio, reinterpretare, quelle atmosfere. A ciò si aggiungono suggerimenti pratici per realizzare scatti con qualsiasi strumento: dalla reflex professionale allo smartphone.
Quello che colpisce maggiormente è la capacità del libro di mostrare come l’estetica andersoniana non sia un artificio, ma una forma di visione del mondo. L’ordine nella composizione diventa un modo per dare senso al caos, la simmetria un desiderio di equilibrio, i colori desaturati un filtro per leggere la realtà con più dolcezza. In fondo, ci suggerisce Scatta come Wes, ogni fotografo è anche un narratore. E ogni scatto, se costruito con consapevolezza e immaginazione, può contenere un piccolo universo.
Le fotografie di esempio sono curatissime e ispiranti, ma ciò che rende davvero prezioso il volume sono gli esercizi creativi proposti: ripensare uno spazio urbano come se fosse una scena di The Darjeeling Limited, lavorare sulla narrazione per immagini, trovare simmetrie nel quotidiano, abbinare oggetti per tonalità come nei tableaux di Fantastic Mr. Fox. Tutto diventa materiale visivo potenziale.
La prefazione e gli inserti critici aiutano a contestualizzare anche il significato più profondo di una fotografia stilizzata: non si tratta di imitare, ma di interiorizzare un linguaggio e rielaborarlo. Per questo, il volume non si rivolge soltanto agli amanti del cinema o ai fan di Wes Anderson, ma a chiunque desideri creare immagini più intenzionali e poetiche, capaci di comunicare un’emozione o un’atmosfera con pochi ma calibrati elementi visivi.
Che si tratti di raccontare una gita al mare, il silenzio di un treno, la malinconia di un pomeriggio piovoso o l’allegria vintage di un mercatino, Scatta come Wes è il compagno ideale per trasformare lo scatto fotografico in un gesto d’autore.
Un corpo che muta, un’intelligenza che non appartiene a una sola specie, un’umanità che si specchia nel disumano e trova un riflesso più vero. In Hybrid Child, romanzo cult della fantascienza giapponese scritto da Ōhara Mariko e pubblicato per la prima volta nel 1991, ci troviamo di fronte a uno dei testi più radicali e disturbanti della narrativa cyberpunk nipponica. Finalmente disponibile in italiano nella traduzione di Juan Scassa, Hybrid Child è molto più di un romanzo di genere: è un corpo narrativo mutante, un laboratorio linguistico e politico.
Protagonista del romanzo è Hybrid Child B III, un’entità biomeccanica sviluppata a fini bellici. Dotato della capacità di trasformarsi in tutto ciò che ingerisce, l’essere assume la coscienza residua di Giona Sano, una bambina assassinata dalla madre e mantenuta in vita in forma digitale. L’incontro fra i due, macchina e coscienza, distruzione e innocenza, genera una creatura nuova, inclassificabile, che rifiuta ogni binarismo: umano/non umano, maschile/femminile, reale/virtuale.
In un universo narrativo che fonde guerra spaziale, riflessione etica e densità filosofica, Ōhara ci catapulta in un viaggio tra i resti del post-umano. I riferimenti alla cultura cyberpunk occidentale sono evidenti (da Blade Runner a Neuromante), ma Hybrid Child supera il citazionismo: costruisce una voce propria, alimentata da tradizioni e sensibilità giapponesi, da un immaginario floreale e organico, che trasforma la tecnologia in corpo vivo, pulsante.
Il romanzo è disseminato di salti temporali, alterazioni linguistiche, visioni oniriche. A inseguire il protagonista ibrido è il cappellano, una figura enigmatica e mitica che si manifesta in epoche e forme diverse, simbolo di un potere religioso-militare ossessionato dall’annientamento della differenza. In fuga da una Terra devastata, Hybrid Child si dirige verso Caritas, pianeta governato da Milagros, una IA impazzita e poetica, in cui tutto, natura, memoria, dolore, si dissolve nella disgregazione dei confini.
Nel cuore di Hybrid Child pulsa un’urgenza politica: mettere in discussione la normatività. Il corpo che cambia non è solo un’espediente narrativo, ma una metafora potente delle soggettività queer, trans, fluide. Giona non è più solo una bambina morta: è voce, azione, memoria riattivata in un nuovo corpo. E questa corporeità altra non è mai rassicurante: è mostruosa, fragile, infinitamente desiderabile.
Ōhara Mariko costruisce un linguaggio che si espande come il corpo del protagonista, contaminando la forma romanzo con elementi lirici, filosofici, sperimentali. La traduzione di Juan Scassa restituisce con rigore e immaginazione la complessità di una scrittura densa, che disorienta e trascina. In appendice, un apparato critico chiarisce i legami dell’autrice con le avanguardie femministe giapponesi e il cyberfemminismo.
Hybrid Child è un testo che si legge come un flusso organico: attraversa il lettore come un virus benefico, insinuandosi nelle pieghe delle categorie con cui pensiamo l’identità. È un libro di fantascienza, certo. Ma anche un libro sull’infanzia tradita, sull’amore che rinasce nella metamorfosi, sull’umanità che solo attraverso l’ibrido può continuare a esistere.
Una lettura imprescindibile per chi ama la fantascienza più visionaria e politica, ma anche per chi cerca nella letteratura una riflessione coraggiosa sul corpo, la memoria e il desiderio. Un classico contemporaneo, finalmente restituito in tutta la sua complessità al lettore italiano.
Sotto il sole a pendolo di Jeannette Ng
Cosa accadrebbe se un romanzo gotico vittoriano si fondesse con le atmosfere più disturbanti del weird fantasy e le suggestioni arcane del folklore celtico? Sotto il sole a pendolo, esordio letterario di Jeannette Ng, è la risposta a questa domanda: un libro ipnotico, visionario, capace di inquietare, affascinare e confondere con la stessa, identica intensità.
Ambientato in un’Ottocento alternativo e goticamente sfaldato, il romanzo ci racconta la storia di Catherine Helstone, giovane donna borghese e malinconica, che lascia il suo villaggio nello Yorkshire per raggiungere le Terre Fatate, alla ricerca del fratello missionario Laon, misteriosamente scomparso. Ma la missione non è cristiana, né l’esotico è ciò che ci si aspetterebbe: le Fate, creature immortali, incomprensibili e amorali, sono tutt’altro che rassicuranti. In questo mondo sospeso, dove i nomi hanno potere e le parole possono distruggere o salvare, Catherine si ritrova prigioniera di un castello alieno, intrappolata tra ombre, silenzi e sguardi che celano più di quanto rivelino.
Ng mescola con straordinaria maestria linguaggio barocco, folklore, decadenza e teologia eretica, dando vita a un romanzo che è, allo stesso tempo, pastiche letterario e denuncia postcoloniale. Il cuore pulsante dell’opera non è solo la ricerca del fratello perduto, ma la messa in discussione di tutto ciò che Catherine, e con lei il lettore, credeva di sapere su religione, conoscenza e potere. La Regina Candida, presenza centrale anche quando assente, è l’incarnazione di un’alterità assoluta: onnipresente e impronunciabile, divina e mostruosa.
Lo stile di Ng è opulento, stratificato, denso. Ogni frase pare ricamata a mano, ogni descrizione ha il sapore di un arazzo polveroso o di un’incisione esoterica. Non è un libro da divorare in fretta, ma da assaporare lentamente, come una liturgia. Il castello delle Fate, teatro quasi interamente chiuso della narrazione, si configura come un non-luogo gotico e straniante, fatto di stanze che mutano, giardini prigionieri, biblioteche che contengono troppo e troppo poco.
C’è in Sotto il sole a pendolo una riflessione sottile e corrosiva sul colonialismo spirituale dell’epoca vittoriana, che cerca di portare Cristo nei territori del mito e dell’incomprensibile. Ma Jeannette Ng ribalta ogni certezza: qui è la missionaria a perdersi, la religione a vacillare, la logica a cedere. Le lettere e i diari che Catherine scopre diventano un controcanto narrativo potentissimo, in cui emerge una realtà intima e tremenda fatta di ossessione, desiderio e perdizione.
La tensione queer che attraversa il romanzo, mai esplicitata, ma profondamente percettibile, aggiunge un ulteriore strato di profondità, confermando Ng come una delle nuove voci più originali e politicamente incisive del fantastico contemporaneo. Sotto il sole a pendolo è una dichiarazione di poetica, un romanzo che guarda al passato letterario con rispetto ma lo plasma secondo urgenze nuove, più libere e più oscure.
La splendida edizione italiana a cura di Neo, con la traduzione ricca e calibrata di Chiara Puntili, restituisce tutta l’ambiguità e il fascino del testo originale. La copertina, un piccolo capolavoro illustrativo, anticipa perfettamente la vertigine che ci aspetta fra le pagine: un gotico che non consola, ma interroga. E non smette di sussurrare anche dopo l’ultima parola.
Il quarzo e la cera di Pier Giovanni Adamo
Curzio Malaparte è stato, a suo modo, un artista della dissimulazione: soldato e scrittore, fascista e dissidente, cronista della catastrofe e mitografo di sé stesso. Ma è forse come romanziere che ha raggiunto l’apice della sua ambiguità narrativa, come dimostra Il quarzo e la cera di Pier Giovanni Adamo, un saggio affilato e lucidissimo che si addentra nel cuore oscuro e sfaccettato della sua opera romanzesca.
Il libro si concentra su tre testi capitali: Kaputt, La pelle e Il ballo al Kremlino. Lontani dall’essere semplici cronache di guerra o confessioni mascherate, Adamo li legge come una trilogia della dissoluzione europea, un trittico apocalittico che attraversa l’orrore del Novecento con un linguaggio di vetro e fumo, insieme duro e liquido, fatto di osservazione spietata e travestimento barocco. Da qui il titolo: il quarzo della visione tagliente, la cera della metamorfosi, del falso, della maschera.
Il pregio maggiore di questo studio sta nella sua capacità di coniugare rigore critico e potenza evocativa. Adamo non si limita a catalogare i procedimenti letterari malapartiani, il montaggio cinematografico, l’autofinzione, l’ossessione per la morte e l’animalità, ma ne coglie la tensione profonda, il continuo oscillare tra documento e delirio, tra testimonianza storica e lirismo allucinato. In Kaputt il mondo si frantuma in visioni incantate e crudeli; ne La pelle il corpo umano diventa emblema di una civiltà corrotta e umiliata; ne Il ballo al Kremlino lo scrittore danza sul ciglio del potere, tra satire grottesche e fantasie imperiali.
Malaparte appare così come un autore che non descrive la realtà, ma la trasfigura fino al collasso. E lo fa attraverso una prosa ibrida, nervosa, rapsodica, in cui la finzione si sovrappone alla cronaca, e l’io narrante è sempre un doppio, un simulacro, un attore sulla scena della Storia. La sua è una narrazione spettrale, in cui il romanzo diventa forma estrema di interpretazione, e deformazione, del reale. Adamo individua qui un modernismo rovesciato: non l’adesione ai canoni di Joyce o di Musil, ma una personalissima “eresia” stilistica, che fa del romanzo un luogo di contaminazione, rischio e provocazione.
Importante è anche la riflessione che il volume dedica alla funzione della morte nei testi malapartiani: non solo tema ossessivo, ma struttura portante del racconto. La morte è ciò che plasma i corpi, i paesaggi, le città in rovina; è ciò che dà senso al gesto narrativo stesso, che obbliga lo scrittore a inventare un linguaggio capace di sopravvivere all’indicibile. In questo senso, Malaparte non è solo un narratore del disfacimento, ma un alchimista dell’irrealtà, uno scultore di ceneri.
Adamo si muove in questo territorio con passo sicuro, senza smitizzare né idolatrare, ma proponendo una lettura politica e simbolica che riattualizza Malaparte: in un’epoca di crisi della verità e della forma, i suoi romanzi ci interrogano ancora. Che tipo di letteratura è possibile in tempi di crollo? Qual è la responsabilità dello scrittore quando i fatti sembrano già finzione? E quale ruolo ha lo stile quando la realtà è già una messinscena?
Il quarzo e la cera è quindi più di uno studio letterario: è un atto di fiducia nella complessità, un invito a rileggere Malaparte non come un autore minore o eccentrico, ma come un esploratore radicale della crisi europea, della frattura tra cultura e barbarie, tra ideologia e carne.
Per chi ama la letteratura che abita le zone d’ombra, che si contamina, che gioca con la verità per rivelarne l’inconsistenza, questo libro è non solo necessario, ma inevitabile. Come Malaparte stesso.
C’è qualcosa di profondamente disarmante in K-PAX, romanzo cult di Gene Brewer tornato finalmente sugli scaffali italiani dopo anni di assenza. Qualcosa che ha poco a che fare con gli UFO o le galassie lontane, e molto con la condizione umana, con la fragilità, con il bisogno radicale di essere ascoltati. Pubblicato per la prima volta nel 1995 e adattato nel celebre film con Kevin Spacey e Jeff Bridges, K-PAX resta un testo inclassificabile, un ponte sottile tra fantascienza e psicoanalisi, tra sogno e trauma.
Tutto comincia con un paziente apparentemente qualunque in un ospedale psichiatrico di Manhattan. Dice di chiamarsi prot, con la minuscola, e di provenire da K-PAX, tutto maiuscolo. Un pianeta remoto, paradisiaco, dove non esistono religioni né tribunali, dove ogni essere vivente è rispettato, dove le guerre sono un ricordo incomprensibile. Prot parla come un’enciclopedia vivente, sa leggere le stelle, conosce lingue sconosciute, stabilisce un rapporto immediato con gli animali e sembra riuscire a “guarire” chi gli sta vicino.
Il suo interlocutore principale, lo psichiatra Gene Brewer, alter ego dell’autore, si trova davanti a un enigma: prot è davvero un alieno? Oppure è un uomo ferito, che ha costruito un mondo alternativo per sopravvivere a una realtà troppo dolorosa?
La grandezza del romanzo sta proprio nel non voler fornire una risposta definitiva. Come ogni parabola ben costruita, K-PAX lascia che il lettore decida. E intanto scava, con tocco lieve e sensibilità rara, nei meccanismi della mente, nella natura del dolore e della guarigione, nella potenza delle storie che raccontiamo per non impazzire.
Prot è l’outsider che rovescia l’ordine delle cose. La sua presenza mette in crisi le certezze della medicina psichiatrica, ma anche quelle dei pazienti, che cominciano a guardare la propria sofferenza da un’altra prospettiva. Sotto la superficie dell’allegoria fantascientifica si muove un’energia umanissima, fatta di empatia, ascolto e, sorprendentemente, umorismo. Prot non è mai caricaturale, non è un semplice “eccentrico”. È un personaggio complesso, che porta con sé una verità ambigua ma necessaria: a volte, solo immaginando un altro mondo possiamo sopportare questo.
Il romanzo è costruito come un dossier clinico, fatto di dialoghi, appunti, riflessioni. Una scelta che rende la lettura coinvolgente e intima, quasi voyeuristica. Eppure mai compiacente. La scrittura di Brewer è asciutta, a tratti ironica, mai retorica. C’è una grazia sottile nel modo in cui lascia emergere i traumi, senza mai cadere nel pietismo. Come scrive Fabio Geda nella prefazione, K-PAX è un racconto di salvezza e metamorfosi. Di come il dolore possa generare, contro ogni logica, meraviglia.
A rendere questo ritorno ancora più prezioso è la nuova edizione italiana per Centauria, che ne rispetta lo spirito pop-filosofico con una copertina d’impatto e una cura editoriale elegante. Una lettura adatta a chi ama la fantascienza “minima”, fatta più di domande che di effetti speciali. Ma anche a chi cerca un romanzo capace di parlare, con un linguaggio semplice ma non semplicistico, di perdita, resilienza e immaginazione.
K-PAX ci ricorda che a volte non serve una navicella spaziale per viaggiare. Basta sedersi accanto a qualcuno e ascoltare davvero. E se prot fosse davvero venuto da un altro pianeta? Forse non importa. In fondo, chi di noi non ha mai desiderato un mondo migliore?
Come diventare famosi di Cass R. Sunstein
Perché alcuni libri diventano bestseller e altri cadono nell’oblio? Perché certi scienziati vengono ricordati e altri, con scoperte altrettanto cruciali, finiscono ai margini della storia? Perché alcune canzoni ci sembrano immortali mentre altre, altrettanto valide, svaniscono nel rumore di fondo? In Come diventare famosi, Cass R. Sunstein, giurista di fama mondiale, teorico del nudging e fine osservatore dei fenomeni culturali, si addentra nelle dinamiche spesso invisibili che governano la fama e il successo, smontando l’illusione che tutto sia frutto del merito o del destino.
Con uno stile accessibile e una struttura ricca di esempi, aneddoti e riferimenti colti, Sunstein accompagna il lettore in un viaggio nel cuore dei meccanismi sociali che determinano ciò che ricordiamo, celebriamo, tramandiamo. La tesi di fondo è chiara: il successo non è (solo) il risultato di talento o impegno, ma un fenomeno profondamente influenzato da fattori sistemici, dinamiche di gruppo, e, soprattutto, dal caso.
Grazie alla teoria delle “cascate informative”, Sunstein mostra come le opinioni altrui influenzino le nostre in modo esponenziale. Se dieci persone leggono un libro e dicono che è un capolavoro, è più probabile che anche l’undicesima lo legga con quel pregiudizio. Non sempre perché sia davvero il migliore, ma perché “tutti ne parlano”. E così, la celebrità cresce, si autoalimenta, fino a sembrare inevitabile. È lo stesso meccanismo che ci porta a vedere certi nomi nei programmi scolastici o tra le pagine dei manuali di storia della scienza o dell’arte.
Sunstein esplora anche il concetto di path dependence: una piccola variazione iniziale, come un articolo di giornale particolarmente entusiasta o il passaparola giusto al momento giusto, può portare a risultati divergenti e imprevedibili nel tempo. In questo senso, il canone letterario, le classifiche musicali o i premi scientifici non sono affatto il riflesso oggettivo del “migliore”, ma l’esito di una traiettoria non lineare fatta di fortuna, contesto e percezione collettiva.
Non manca la riflessione su come questi processi si siano amplificati nell’era dei social media. Le “cascate virali” sono più rapide, meno controllabili e ancor più soggette a derive. In pochi clic si può diventare famosi, ma altrettanto rapidamente dimenticati. Il successo digitale, suggerisce Sunstein, è tanto effimero quanto arbitrario.
Quello che rende Come diventare famosi un saggio stimolante è anche la sua capacità di alternare teoria e narrazione. L’autore cita Shakespeare e Susan Boyle, Newton e J.K. Rowling, Einstein e TikTok. Ogni caso è un pretesto per dimostrare quanto la fama sia spesso frutto di un algoritmo sociale in cui talento, carisma, ma anche semplici coincidenze giocano un ruolo cruciale. Eppure, non si tratta di un libro cinico o nichilista. Al contrario: l’autore ci invita a considerare la storia culturale come un sistema aperto, imprevedibile, dove anche la voce più periferica, il talento più silenzioso, può trovare il suo momento, se intercetta le giuste condizioni.
In definitiva, Come diventare famosi è una lettura preziosa per chi si occupa di cultura, editoria, arte, comunicazione, ma anche per chi, più semplicemente, si interroga sul perché alcuni nomi sopravvivano ai secoli e altri no. Un saggio che smonta il mito del genio solitario e ci mostra quanto la fama sia spesso una costruzione collettiva, e il successo, una combinazione di contenuto, tempismo e contesto.
Un libro utile, spiazzante, illuminante. Da leggere per comprendere il presente, ma anche per rimettere in discussione molte delle nostre convinzioni su cosa valga davvero la pena ricordare.
La giusta distanza dal male di Giorgia Protti
Nel cuore della notte, in un parcheggio deserto, una giovane dottoressa si ferma davanti a una figura impossibile: un uomo dalle ali scure, seduto con calma sul cofano di un’auto. Dice di chiamarsi Lucifero. Non è una metafora, non è un sogno, non è neppure un’allucinazione da stanchezza. È il male in persona, e ha deciso di farle compagnia. Con La giusta distanza dal male, Giorgia Protti firma un esordio sorprendente e perturbante, che fonde realismo crudo e simbolismo fantastico per raccontare la deriva emotiva di chi si prende cura degli altri ogni giorno.
Il romanzo si apre in un Pronto soccorso qualunque, ma la scrittura restituisce un ambiente iperreale, vivido, saturo di dolore e tensione. Non c’è tempo per pensare, solo per agire. Turni infiniti, corpi martoriati, richieste estenuanti, pazienti violenti o disperati. La protagonista è una giovane specializzanda, idealista agli inizi, poi sempre più spossata, svuotata, anestetizzata. A furia di resistere al dolore altrui, inizia a non sentire più niente. È a quel punto che il male, o forse solo la consapevolezza del male, prende forma.
Lucifero entra in scena con eleganza disturbante. È cinico, seducente, ironico. Non la spaventa, non la minaccia: si limita a insinuarsi nelle sue giornate, a osservarla mentre lavora, a porle domande che nessuno osa fare. Quanto vale la tua anima, le chiede. Come si convive con il dolore degli altri senza perdere il proprio equilibrio? Esiste davvero una distanza “giusta” dal male?
La forza del romanzo sta nell’equilibrio instabile tra due registri. Da un lato, la precisione documentaria con cui Protti racconta la vita in corsia, tra codici rossi, flebo, barelle e crisi familiari esplosive. Dall’altro, l’ingresso progressivo del fantastico, che non alleggerisce ma amplifica la densità emotiva della narrazione. Lucifero non è mai una pura invenzione: è un’interrogazione costante sulla vulnerabilità umana, sul limite oltre il quale anche chi cura può smettere di essere salvo.
I ritratti dei pazienti sono memorabili. Non sono figure di sfondo, ma storie vive: la madre che si rifiuta di accettare l’agonia della figlia, l’uomo che cerca nel pronto soccorso una via di fuga dal lavoro, la donna che arriva troppo tardi per essere salvata. Ognuno di loro è un frammento di umanità che chiede attenzione, empatia, presenza. Ma cosa succede a chi non ha più nulla da offrire? A chi, per sopravvivere, deve congelarsi?
Protti scrive con una voce piena, precisa, essenziale. Riesce a toccare le corde più profonde del lettore senza mai cedere alla retorica o al pietismo. La sua protagonista non è un’eroina né una vittima, ma una donna concreta, divisa tra dedizione e autodifesa. Il suo percorso non è quello dell’ascesa o della redenzione, ma quello della consapevolezza: imparare che non si può salvare tutti e che, per non cadere, a volte bisogna lasciarsi attraversare dal buio.
La giusta distanza dal male è un romanzo che brucia lentamente. Non cerca l’effetto shock ma la tensione continua. È una riflessione profonda su cosa significhi prendersi cura, su quanto costi restare umani dentro un sistema che spinge alla disumanizzazione. E lo fa con coraggio narrativo, introducendo l’elemento sovrannaturale come chiave per leggere una realtà che, nella sua brutalità, è forse più disturbante della fantasia.
Una lettura necessaria per chi vuole capire meglio cosa succede ogni giorno dietro le porte scorrevoli degli ospedali. Ma anche per chi ha bisogno di ricordare che ogni gesto di cura, ogni resistenza al cinismo, è già una forma di ribellione.
L’inventario dei sogni di Chimamanda Ngozi Adichie
Cosa significa sognare quando il mondo intorno a te sembra fatto per spezzare ogni anelito? Come si misura il desiderio di felicità con il peso delle aspettative, delle delusioni e delle ferite? Con L’inventario dei sogni, Chimamanda Ngozi Adichie ci regala un romanzo denso e caleidoscopico, in cui quattro donne si alternano sulla scena come voci di un unico grande coro, componendo il ritratto plurale di un’umanità femminile in cerca di senso, amore, giustizia.
Chiamaka, Omelogor, Zikora e Kadiatou sono molto più che personaggi: sono figure-mondo, ognuna a suo modo portatrice di un frammento della condizione femminile contemporanea. Chiamaka, che si firma “Latteburro”, è la scrittrice di viaggi che non riesce mai a sentirsi davvero a casa; è elegante, cosmopolita, eppure costantemente attraversata dal bisogno di essere vista, amata, accolta nel profondo. Ogni città in cui si ferma, ogni uomo che incontra, ogni nuovo luogo che esplora diventa un riflesso della sua ricerca interiore.
A farle da contraltare è Omelogor, la cugina brillante, implacabile, esperta di finanza, sfrontata e disillusa. Con il suo blog irriverente “Per soli uomini”, decostruisce i modelli maschili di potere e desiderio, ma dovrà fare i conti con un’incrinatura nella propria corazza. Nelle sue scelte, nelle sue rinunce, nel modo in cui si relaziona al denaro e al corpo, Adichie inserisce una critica acuta al mito dell’autosufficienza femminile.
Zikora, invece, è la donna che ha tutto sotto controllo. Razionale, pragmatica, chiusa nel suo guscio di efficienza, si ritrova disarmata davanti all’imprevedibilità dell’abbandono. Il suo percorso è quello della vulnerabilità che riaffiora, della forza che deve piegarsi per non spezzarsi. Ed è, in fondo, il percorso più universale: quello di chi credeva di essere invincibile e invece si scopre, semplicemente, umana.
Infine, Kadiatou. È lei, forse, la vera protagonista silenziosa del romanzo. Immigrata africana senza privilegi, senza reti, senza le parole giuste per difendersi. È la madre che tenta tutto per dare un futuro alla figlia, e che viene travolta dalla violenza e dall’indifferenza. In lei si concentra l’epicità sommessa di chi vive al margine. Il riscatto che Adichie le dona nel finale, intenso, lirico, straziante, è un gesto letterario e politico al tempo stesso.
Con una prosa limpida, ricca di sfumature emotive e intellettuali, L’inventario dei sogni è un libro che pulsa di vita e domande. Adichie non giudica, ma osserva, disseziona, scompone e ricompone la complessità dell’esperienza femminile. I suoi personaggi si amano, si feriscono, si lasciano e si ritrovano in un continuo oscillare tra il desiderio di autonomia e il bisogno di legame. Il sogno, qui, non è evasione, ma spinta al cambiamento, interrogazione radicale sul proprio posto nel mondo.
Le pagine dedicate al legame tra madri e figlie sono tra le più toccanti: fragili, incandescenti, capaci di scardinare ogni certezza. E non è un caso se il romanzo, alla fine, sembra tornare sempre lì, a quel gesto ancestrale e quotidiano che è l’amore materno, ultimo rifugio e prima ferita.
Paragonato dal Times a un Guerra e pace femminista, L’inventario dei sogni è in realtà qualcosa di più sottile e sfaccettato: una cartografia dell’intimità, del trauma, della speranza. Un libro necessario, che conferma Adichie come una delle voci più brillanti e autentiche della letteratura contemporanea.
Mostruosa mente di Mauro Mazza
Cosa accade quando la devozione a un’ideologia si trasforma in condanna? Mostruosa mente, il romanzo di Mauro Mazza, prova a rispondere entrando nella psiche della donna simbolo del nazismo, Magda Goebbels, madre devota, moglie del più potente tra i gerarchi hitleriani, complice, e vittima, di un sistema che ha divorato sé stesso. È il ritratto disturbante e disturbato di una figura storica enigmatica, raccontata nei dieci giorni claustrofobici passati nel bunker di Hitler, mentre la Germania nazista collassa e il Terzo Reich si dissolve sotto le bombe sovietiche.
Il romanzo si svolge in un crescendo tragico, in cui ogni pagina avvicina il lettore al silenzioso abisso che precede la fine. Berlino è una città spettrale, sotto assedio. I corridoi del bunker sono stretti, saturi di paura e fanatismo. E Magda Goebbels, che la propaganda aveva dipinto come la madre della Germania ideale, qui si rivela in tutta la sua complessità: non solo moglie e madre, ma donna che ha scelto consapevolmente di seguire fino all’ultimo il Führer, e di sacrificare sull’altare dell’ideologia perfino i propri figli.
Attraverso un impianto narrativo denso e ipnotico, fatto di flussi di coscienza, frasi interrotte e memorie distorte, Mauro Mazza non cerca la redenzione, né la condanna univoca. Piuttosto, si addentra nei meccanismi della mente di una donna che ha smarrito il confine tra realtà e allucinazione, tra colpa e dovere, tra amore materno e fedeltà ideologica. Il lettore assiste a una discesa nell’inferno dell’autoconvincimento, del fanatismo, della paranoia storica.
Ne risulta un ritratto profondamente perturbante. Magda Goebbels non è un simbolo astratto del male, ma una presenza viva e disarmante: lucida e delirante, raffinata e violenta, capace di gesti di fredda pianificazione e di visioni mistiche. I flashback che riemergono nel bunker, gli anni dell’ascesa nazista, il matrimonio con Goebbels, la fascinazione per Hitler, costruiscono un mosaico narrativo che fonde cronaca e follia.
Il vero valore del romanzo sta però nell’evocare la Storia attraverso l’intimità del pensiero, nel far risuonare il collasso politico attraverso l’implosione psichica. Non c’è compiacimento, né giustificazione. Solo una feroce ricostruzione del male che si insinua nel quotidiano, che si traveste da dovere, da amore, da destino nazionale. Mazza non scivola nella retorica, ma affronta con rigore letterario e tensione tragica un personaggio che ancora oggi inquieta.
In Mostruosa mente, la follia non è rumore, ma un sussurro ostinato. E la mostruosità, come suggerisce il titolo stesso, non è solo un fatto storico, ma una condizione mentale, una forma di pensiero che giustifica l’orrore con la coerenza, che trasforma la maternità in sacrificio politico, la fine in fedeltà.
È un romanzo cupo, ossessivo, che scuote e impone domande: sulla responsabilità individuale, sul confine tra ideologia e psicosi, su cosa significhi “scegliere” di morire per un’idea disumana. Nella voce rotta e insistente di Magda Goebbels, una voce narrata magistralmente da Mazza, si riflette il naufragio morale dell’Europa del Novecento.
Un libro difficile, ma necessario. Perché la Storia, quando si fa letteratura, non è solo memoria: è anche specchio. E leggere questo specchio oggi significa affrontare, ancora una volta, l’enigma eterno del male travestito da normalità.
Ci sono estati che sembrano sospese nel tempo, cristallizzate nei ricordi come una promessa di felicità eterna. Ma in Kala, esordio folgorante di Colin Walsh, quell’estate del 2003 a Kinlough, costa atlantica dell’Irlanda, è anche l’inizio di una crepa, il preludio di un mistero che travolge il presente. Un thriller psicologico dal ritmo serrato e dal cuore malinconico, che intreccia il romanzo di formazione con il noir, la nostalgia con la brutalità della verità.
Kala Lanann, spirito libero, magnetico e imprevedibile, scompare nel nulla a quindici anni. È la leader carismatica di un gruppo di adolescenti uniti da un legame totalizzante e quasi mistico. Attorno a lei ruotano le vite di Helen, Mush e Joe, tre amici che l’hanno amata, temuta, seguita. Quando quindici anni dopo tornano nella loro città natale, Kinlough, sono ormai adulti distanti e disillusi. Ma il ritrovamento di resti umani nel bosco di Caille, lo stesso in cui Kala viveva con la nonna, riapre una ferita mai chiusa. E li costringe a fare i conti con la memoria, con i fantasmi, con sé stessi.
Walsh gioca sapientemente con due linee temporali: l’estate dell’innocenza e del disastro, e il ritorno nel presente, tra verità sopite e sensi di colpa mai del tutto sepolti. Il risultato è un romanzo corale e atmosferico, in cui i luoghi, la costa irlandese, i bar dimenticati, i boschi inquieti, diventano personaggi a loro volta, impregnati di malinconia e sospetto.
La scrittura è densa, coinvolgente, quasi cinematografica: ogni capitolo accende un nuovo dettaglio, ogni dialogo porta a galla tensioni sopite. Ma non è solo la suspense a tenere il lettore incollato. Kala è anche, e soprattutto, una riflessione struggente sull’identità, sull’amicizia adolescenziale, sul tradimento e sull’appartenenza. Chi siamo diventati? E cosa resta di quello che eravamo?
Helen, oggi giornalista, incarna il disincanto e il rimpianto. Joe è una pop star sull’orlo del crollo, Mush un uomo che ha scelto di restare, ma non ha mai davvero smesso di cercare. La dinamica tra loro è viva, dolente, autentica. E tutto ruota attorno a Kala, presenza assente, simbolo e trauma, catalizzatore di ogni non detto.
Colin Walsh riesce nell’impresa rara di consegnarci un romanzo che è insieme giallo e elegia, romanzo psicologico e thriller di provincia. C’è qualcosa di Dio d’illusioni di Donna Tartt nella costruzione del gruppo chiuso, nell’eco persistente del passato, nel peso del ricordo. Ma c’è anche la grana ruvida del noir irlandese, il dolore vero di chi non riesce a liberarsi del proprio luogo d’origine.
Kala non è solo un romanzo da leggere: è un libro da vivere. Ti accompagna come un’ombra, ti stringe con i suoi segreti, ti sussurra che certe estati non finiscono mai. E quando arrivi all’ultima pagina, hai la sensazione che qualcosa, dentro di te, sia rimasto in quel bosco.