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Leggere ”La terrazza proibita” davanti ad un tramonto sulla città di Amman

Attraversavo le vie, su cui si affacciavano gli edifici che, per volere del Re, erano tutti bianchi e simili, rivestiti dalla medesima pietra locale, calcarea e lattea...

Attraversavo le vie, su cui si affacciavano gli edifici che, per volere del Re, erano tutti bianchi e simili, rivestiti dalla medesima pietra locale, calcarea e lattea.

 

Ero ancora tesa fra due mondi: la ragazza che ero stata, chiusa entro confini definiti, e la donna che stavo diventando, stupendo perfino me stessa, o che, forse, inconsapevolmente, ero da sempre.

Conoscevo, infatti, le mura rassicuranti di una casa a pochi passi dal mare, eretta nella mia città natale, su un terreno proprietà della mia famiglia da generazioni, che fu orto e ora è quartiere residenziale, e quelle, visceralmente amate, dell’ateneo dove studiavo come dottoranda.  

Anche Amman è scissa in due, come lo ero io, in bilico fra passato e presente, fra il deserto rosso e la valle fertile del Giordano, fra antichi monumenti di suadente bellezza, quartieri poverissimi e novelle Beverly Hills, fra negozietti che sfornano pane profumato, senza contemplare orari di chiusura, e centri commerciali traboccanti di “occidente”.

Mi ero trasferita nel cuore della Giordania da circa cinque mesi, ma a intermittenza, poiché, in quel breve lasso di tempo, ero tornata in Italia ben due volte, per assolvere ai miei doveri di dottoranda e, ad essere sincera, perché ancora cercavo radici e non avevo ben appreso come esse si possano piantare, velocemente e caparbiamente, anche sull’orlo di un precipizio, se è lì che la vita ci ha spinto.

 

Era la prima volta che partecipavo ad un convegno organizzato dal e nel centro culturale italiano. Gli astanti, in maggioranza donne, erano perfettamente integrati nella cultura locale, non portavano veli di stoffa sulle chiome castane, ma avevano tessuto la propria identità, ritagliandosi un posto in prima fila.

Io, pertanto, ben conscia della metafora, mi sedetti a metà della piccola sala, allestita con sedie azzurre.

 

L’argomento su cui ci si accingeva a dissertare era la realtà dell’harem, che non è mai coincisa con l’immagine, fasulla, che ne è stata veicolata in occidente.

Le slide scorrevano e le parole le inseguivano. E io tenevo il ritmo, una delle rare volte, in quei cinque mesi, in cui non ero una nota discordante.

Numerosi furono i riferimenti ad un libro celebre, La terrazza proibita, scritto da Fatema Mernissi, del quale conoscevo titolo e sinossi, ma non lo avevo letto, ancora. Lo avrei iniziato a fare il giorno a seguire.

 

Si tratta di una appassionata memoria d’infanzia, condotta con pudica dolcezza, saettante ironia e struggente drammaticità, ambientata nella metà dello scorso secolo, momento storico in cui, nella società marocchina, si avvertiva il forte contrasto fra l’atavica tradizione e l’impellente esigenza di cambiamento. Attraverso le pagine del racconto, fitte di ricordi e di immagini sapientemente evocate, si imparano a conoscere le dinamiche che si svolgono all’interno di un harem, svincolandosi da infondati stereotipi.

Non è un luogo di mera seduzione, in cui donne bellissime e languide, simili all’odalisca ritratta da Ingres, invitano al piacere, ma uno spazio delimitato da confini, reali e simbolici, in cui vigono ferree regole che gli uomini impongono alle loro donne, non sono in qualità di mogli, ma anche di figlie e di parenti.

La piccola Fatema, protagonista e voce narrante, esprime un ribelle desiderio di evasione e di autoaffermazione che trova via di fuga e correlativo oggettivo nella terrazza che sovrasta la grande casa, quest’ultima adorna di tappeti colorati intrisi dell’aroma delle spezie, ma priva di spiragli attraverso i quali essere investiti dal vento della vita.

Tuttavia, le donne sanno come eludere sorveglianze imposte, librando le proprie anime indomite anche dentro spazi circoscritti, e non si esimono dall’insegnare alle proprie figlie a credere e a combattere per un futuro migliore.

E, se ci riflettiamo, esistono molti harem nelle vita di ciascuno, se pur momentanei, a cui segue una sete di cielo e di libertà che esige di essere estinta.

 

 “Perché vedi, il problema con le donne, oggi, è che non hanno potere. E la mancanza di potere viene dall’ignoranza, dalla mancanza di istruzione. Tu diventerai una donna importante, non è vero? Ne sarei sconvolta se non fosse così. Devi solo concentrarti su quel piccolo tondo di cielo che se ne sta sospeso sopra il pozzo. C’è sempre un pezzetto di cielo verso cui si può alzare la testa. Allora, non guardare in giù, guarda in alto, su, su, su, e ne verremo fuori! Prenderemo il volo!”.

Emma Fenu

Foto: Silvia Montis

30 settembre 2014

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