Sei qui: Home » Fotografia » Michele Cera, ”Attraverso la fotografia racconto il mio sguardo lento sul mondo”

Michele Cera, ”Attraverso la fotografia racconto il mio sguardo lento sul mondo”

E' uno sguardo personalissimo quello che Michele Cera adotta nel fare fotografia: ogni scatto, minimale, pulito, lento, nasce con l'intento di descrivere la realtà, senza troppi lirismi o coinvolgimenti. Quello che ne scaturisce è un lavoro, ''Dust''...

Il fotografo pugliese racconta il suo personale approccio alla fotografia, attraverso la descrizione dei suoi ultimi progetti e una breve analisi sulla situazione culturale italiana

MILANO – E’ uno sguardo personalissimo quello che Michele Cera adotta nel fare fotografia: ogni scatto,  minimale, pulito, lento, nasce con l’intento di descrivere la realtà, senza troppi lirismi o coinvolgimenti. Quello che ne scaturisce è un lavoro, “Dust” – vincitore al SI Fest 2012 del premio Open Your Books, assegnato ad autori di libri fotografici autoprodotti – , che descrive l’Albania attraverso immagini prive di retorica o sentimentalismi. In questa intervista il fotografo pugliese ci racconta cosa voglia dire per lui fare fotografia, parlando del suo ultimo progetto, ma anche dell’esperienza collettiva di “Documentary Platform”, chiedendosi infine per quale strana ragione ai fotografi statunitensi o olandesi non capiti mai, come è successo tante volte a lui, di essere interrogati riguardo alla situazione politico-culturale del loro Paese.

Come nasce la sua passione per la fotografia?
Ho iniziato prendendo una macchina fotografica e uscendo di casa per andare in giro a fare fotografie, apparentemente senza alcun tipo di sollecitazione esterna. Benché non ci sia nulla di romantico o straordinario in questo, è esattamente ciò che avvenne. Credo, comunque, che ciò avesse a che vedere con il bisogno di trovare un nuovo modo di relazionarmi con il mondo.

Cosa vuol dire per lei fare fotografia?
E’ un modo per guardare ciò che è fuori da me e per darne una descrizione. Una finestra attraverso la quale guardare la realtà visibile.

Recentemente ha partecipato  a “F4_Un’idea di fotografia”, seconda edizione del festival di fotografia moderna e contemporanea, promosso dalla Fondazione Francesco Fabbri nelle sedi di Solighetto di Pieve di Soligo e a Follina, nel cuore delle colline trevigiane. Il suo lavoro, “Dust”, è incentrato sul volto dell’Albania odierna. Come sono nati questi scatti?
Vengo da una regione, la Puglia, molto vicina all’Albania e che ha sperimentato in maniera drammatica la prima ondata migratoria dopo la fine del comunismo. Sicuramente la curiosità iniziale nei confronti dell’Albania deriva da questo. Poi però, nel corso degli anni, ho intrattenuto con l’Albania un rapporto abbastanza continuo, legato ad una serie di varie circostanze, che hanno fatto sì che il Paese mi divenisse piuttosto familiare. Ho cercato quindi di depurare il mio sguardo dall’esotismo che un paese come l’Albania può possedere, mantenendomi lontano da intenti reportagistici che non mi interessano. Mantenere la giusta distanza dalle cose e dalle persone, non eccedere in retorica e sentimentalismi, controllare la dose di lirismo che pure penso in questo lavoro sia presente, sono stati principi che mi hanno guidato, spero, nella costruzione di questo lavoro.

Dal 2010, insieme ad altri fotografi, ha creato la piattaforma virtuale “Documentary Platform”. Quale è il suo scopo? Che rapporto vuole avere con la società e in particolare con la realtà italiana?
“Documentary Platform” è un archivio visivo sull’Italia contemporanea alimentato da lavori fotografici di autori nati dopo il 1970 e inscrivibili nella tradizione della fotografia documentaria. Lo scopo è quello di guardare al territorio e alla società italiana e alle loro trasformazioni con uno sguardo non fotogiornalistico, ma piuttosto riflessivo e, per così dire, “lento”, legato più a processi di medio e lungo periodo che ad eventi contingenti. Questo attraverso una molteplicità di punti di vista che possano generare una sorta di dialogo visuale nel quale la lettura dell’Italia contemporanea possa arricchirsi stimolando nuove visioni e nuovi temi di indagine.
Questo anche nella convinzione che la fotografia possa così svolgere anche un ruolo etico e politico nel guardare la realtà che ci circonda in maniera non ideologica e preconcetta.

In che modo i suoi lavori trovano spazio all’interno del panorama italiano? Secondo lei l’arte della fotografia è abbastanza valorizzata in Italia?
Ritengo di essere stato personalmente fortunato e di avere avuto esperienze, anche molto positive, con alcune istituzioni italiane. Non posso certo lamentarmi sotto questo punto di vista. Se guardo al panorama istituzionale nel suo complesso, tuttavia, mi sembra che la situazione presenti qualche luce e troppe ombre. Rispetto ad altri paesi europei, le istituzioni italiane che si occupano di fotografia non sono molte e alcune di esse lo fanno in un modo secondo me discutibile. Non mancano naturalmente le eccezioni positive, ma in generale penso che le istituzioni italiane, non solo nel campo della fotografia, soffrano di alcuni vizi che sembrano connaturati alla società italiana: pressapochismo, familismo, mancanza di lungimiranza, eccesso di logiche politiche e spartitorie. D’altronde non è un caso che in Italia si finisca sempre a parlare delle istituzioni, del loro ruolo e delle loro manchevolezze, spesso in maniera francamente stucchevole. Il fatto stesso che mi venga posta la domanda è significativa: non ricordo fotografi statunitensi o olandesi interrogati sulla situazione nei loro rispettivi paesi.
Più in generale, e tralasciando il discorso sulle istituzioni, la mia opinione è che la cultura fotografica non abbia molta diffusione presso il pubblico, spesso anche presso quello colto. Si tende a guardare la fotografia come un magma indistinto, facendo confusione tra le cose. La mia impressione è che l’idea diffusa sia che la fotografia sia facile da praticare e che sia facile parlarne, con una tendenza a sacrificare le gerarchie di valori in nome di una malintesa idea di democrazia.

Tra i suoi lavori, quale è quello a cui è più affezionato?
Non amo parlare di affezione a proposito di ciò che ho fatto: stabilire un rapporto troppo sentimentale con ciò che abbiamo fatto non ci permette di avere la giusta distanza per valutarlo. Detto ciò, non posso fare a meno di dire che il lavoro che mi ha impegnato più a lungo e credo anche con i migliori risultati sia proprio quello fatto in Albania.

 

24 settembre 2012

© Riproduzione Riservata