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Marco Giaroli, ”Con i miei scatti ho raccontato la grande determinazione degli atleti disabili”

Mettere in gioco le proprie abilità in qualcosa di mai sperimentato prima, ma soprattutto imparare. Sono questi gli obiettivi che hanno spinto Marco Giaroli, ingegnere per professione, ma fotografo per passione, a realizzare il reportage che ha dato vita al libro fotografico FortissimaMente...

In quest’intervista Marco Giaroli racconta come è approdato alla fotografia, a partire dai primi scatti, fino agli ultimi successi, ottenuti grazie alla pubblicazione del suo primo libro fotografico FortissimaMente

MILANO – Mettere in gioco le proprie abilità in qualcosa di mai sperimentato prima, ma soprattutto imparare. Sono questi gli obiettivi che hanno spinto Marco Giaroli, ingegnere per professione, ma fotografo per passione, a realizzare il reportage che ha dato vita al libro fotografico FortissimaMente (editVallardi). Nel tentativo di raffigurare la quotidianità nella straordinarietà, Giaroli dà vita a scatti in bianco e nero che testimoniano la determinazione feroce di quattro atleti disabili della nostra Nazionale Italiana – tra cui anche Alex Zanardi, autore della prefazione al testo -, raffigurati tra i successi sportivi e le conquiste della quotidianità.

Come ha scoperto la sua passione per la fotografia e quale è stato il suo percorso formativo?
La storia è piuttosto simpatica. Ero appassionato di video e come ogni amatore “curavo” tutto, dalle riprese al montaggio. Video delle vacanze ovviamente. Poi mi sono fidanzato con Daniela (diventata poi mia moglie), grande appassionata di fotografia. L’ho accompagnata alla presentazione di un corso di fotografia a cui intendeva partecipare e lei mi ha convinto, durante la presentazione, ad iscrivermi per migliorare nel video. All’inizio avevamo una sola macchina fotografica in due.  Il mio percorso formativo è dunque nato con questo corso e il successivo avanzato, tenuto da Sandro Ariu ( fotografo matrimonialista ) e Federica De Angeli (fotografa di architettura e pubblicità). Grazie a loro ho conosciuto e frequentato altri grandi fotografi del panorama genovese e non (tra cui Alberto Terrile e Pino Ninfa), ma tra quelli che poi hanno più “segnato” la mia formazione ci sono sicuramente Ivo Saglietti e Massimo Lovati. La cosa singolare è che proprio Ivo e Massimo sono abbastanza agli antipodi (pellicola, b/n e Leica il primo, digitale, colore, teleobiettivi il secondo), ma penso che di loro, cosi come di Sandro e Federica, mi abbiano contagiato la passione e la dedizione tesa al perfezionismo.

Quale tecnica raffigurativa preferisce?
La risposta rischia di essere banale perché mi verrebbe da dire bianco e nero nel reportage e colore nello sport, che sono anche i generi che mi divertono di più. Inoltre per fare le cose bene servono attrezzature buone, nel digitale oggi come era con la pellicola prima. Io non sono un fotografo di professione, non vivo di fotografia e quindi i miei mezzi sono quelli di un fotoamatore, magari evoluto, ma fotoamatore. La scelta del bianco e nero per i lavori a cui più tenevo si può spiegare con un paragone che rende l’idea: una bella macchina degli anni ‘30 rimane ancora oggi affascinante. Una berlina degli anni ‘80 oggi lascia una sensazione un po’ triste. Per questo non amo le mode del digitale (il mix colore e b/n o altre cose che spopolano soprattutto nel mondo del matrimonialismo).  Le foto belle sono come le belle barzellette: arrivano in modo immediato, non servono spiegazioni e sorprendono perché non sono scontate.
    
Recentemente ha pubblicato il reportage fotografico “FortissimaMente”, che documenta la quotidianità di quattro atleti disabili, che recentemente hanno gareggiato alle paraolimpiadi per la nostra Nazionale Italiana, nella categoria handbike. Fra questi anche Zanardi. Come è nato questo progetto?
Il progetto è nato dal desiderio di imparare di più. Volevo imparare cos’è un reportage, e i workshop di un fine settimana non erano certo sufficienti a sviluppare un’idea. Così ho deciso di fare a Ivo Saglietti una proposta: io avrei sviluppato un progetto e periodicamente sarei andato da lui a verificare il lavoro fatto e programmare i passi successivi. Ivo mi ha risposto che gli andava bene purché il soggetto scelto fosse stimolante. Era l’ottobre del 2008, erano da poco terminate le paraolimpiadi e a mio avviso non avevano avuto un adeguato trattamento mediatico. Per questo ho pensato al mondo dello sport dei disabili. Vista la vastità di sfumature in cui si rischiava di perdersi, ho contattato diverse federazioni e società illustrando le mie idee. Come spesso accade – non scoraggiatevi!!! – ho ricevuto solo una risposta, dal mondo dell’handbike appunto, che all’epoca non aveva neppure una federazione. Mi hanno segnalato due atleti, uno dei quali abitava abbastanza vicino a casa mia. Quando ho contattato il suo allenatore mi ha detto “Lascia stare: io ero a Pechino e ho fatto le foto e foto più belle che alle Olimpiadi non ne puoi fare. E poi lo so come fate: venite, fate trenta foto un pomeriggio e poi volete fare una mostra. Se vuoi, vieni a vedere la mia mostra su Pechino”. Sono andato alla mostra e gli ho spiegato che io intendevo dedicarci almeno un anno. Scettico – come tutti i liguri – mi ha fatto parlare con Vittorio Podestà (l’atleta), il quale invece si è immediatamente entusiasmato all’idea. Inizialmente ho seguito lui e Francesca Fenocchio. Poi in una trasferta negli Emirati Arabi ho conosciuto Federico “Kicco” Villa, che è davvero un ragazzo singolare. Non potevo non inserirlo nel racconto. Quando pensavo di aver finito Vittorio mi ha detto: “Alex (Zanardi) conosce un editore, vuoi fargli vedere le foto?”. Ricordo la prima volta che sono salito sul motorhome di Alex, ero impacciatissimo.

Come ha deciso di rappresentarli?
Ho scelto di rappresentarli per quello che sono. Nella vita di tutti i giorni, non solo nelle gare, non solo nei successi. Ma soprattutto non volevo raffigurarli come dei “miti”. Primo, perché loro non si sentono tali. Secondo, perché oltre che un tributo a loro voleva essere un lavoro – all’inizio non pensavo affatto che sarebbe diventato un libro – che fosse anche spunto di riflessione per i normodotati. Raffigurarli come idoli avrebbe fornito l’alibi dell’ “inarrivabilità” alle persone comuni. Essendo invece loro persone comuni, ma con una determinazione feroce, non ci sono alibi. Il fatto che diverse persone mi abbiano detto di aver usato il libro come sprone per persone a loro care colpite in situazioni molto difficili, mi ha fatto pensare di essere riuscito a fare centro. In questo l’aiuto di Ivo è stato fondamentale.

Tra tutti i suoi scatti, qual è quello a cui è più affezionato?
Sembrerà strano, ma è uno dei miei primi scatti, quello che in un certo senso ha segnato il punto di rottura tra la teoria dell’arciere (scagliando moltissime frecce prima o poi casualmente una di esse colpirà il bersaglio) e il prendersi tempo a ragionare. E’ una banalissima foto di still life con una barchetta di carta in primo piano e sullo sfondo una mezza arancia che fa da sole che tramonta. La foto in sé è ben poca cosa, ma ha acceso in me un bagliore nelle tenebre.

A fronte della sua esperienza si sente di dare qualche consiglio a chi si avvicina al mondo della fotografia?
Che responsabilità! Allora, io credo che chi inizia debba abbandonare alcuni pregiudizi sbagliati. Io ho scattato quasi solo in digitale. Il digitale è una opportunità, non una scorciatoia. Mi spiego: la celebre foto di Cartier Bresson (il bimbo che salta nella pozzanghera) è stata ritagliata. I coniugi Simone, maestri di ritratto con banco ottico, ritoccavano con il pennellino i negativi dei loro scatti. Infine mi è rimasta impressa una foto in cui Mappelthorpe con tantissimi cerchietti rossi e annotazioni per il suo stampatore su come trattare l’esposizione della foto in modo diverso. Certo, all’epoca della pellicola correggere un’immagina (correggere, non modificare) era un’arte e richiedeva una serie di passaggi e di utilizzo di mezzi non alla portata di tutti. Oggi il computer mette in teoria a disposizione di molti quello che era prima per pochi. Io in questo vedo una grossa opportunità: se ogni grande fotografo ha sempre avuto un grande stampatore che lo conosceva intimamente e ne interpretava il linguaggio raffigurativo, oggi ognuno può esprimersi direttamente senza questo passaggio. Il punto è: chi sa davvero cosa vuole esprimere? Per questo oggi il numero di “fotografie” è una minima parte delle “immagini” che si producono. Comunque i consigli per crescere un po’ più rapidamente sono tre. Il primo: fotografare solo quello che si dipingerebbe. Se sareste disposti a stare seduti ore di fronte a quel soggetto, premete il pulsante.  Il secondo è di non guardare cosa c’è al centro del mirino, ma di imparare a guardare rapidamente cosa c’è nei 4 angoli del mirino. Infine ogni tanto uscite con una sola ottica fissa: scegliete un 35 o un 50 e usate le gambe al posto dello zoom. In breve avrete risultati sorprendenti! Ah…non dimenticatevi di domandare. E’ incredibile la quantità di opportunità e di situazioni che si verificano semplicemente chiedendo.

 

18 ottobre 2012

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