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Una frase di Henrik Ibsen sulla soggettività della bellezza

Leggiamo assieme questa citazione di Henrik Ibsen sulla bellezza che, anche se spesso lo dimentichiamo, è un giudizio del tutto soggettivo.

Questa riflessione di Henrik Ibsen, drammaturgo norvegese tra i più influenti del teatro moderno, proviene dalla sua opera poetica e simbolica Peer Gynt (1867). In essa, Ibsen mette in scena un viaggio interiore e fantastico che esplora il rapporto tra identità, apparenza, moralità e illusione. La citazione sulla bellezza tocca uno dei nodi centrali della poetica di Ibsen: il relativismo dei valori umani, e in particolare, l’idea che anche ciò che riteniamo oggettivo — come la bellezza — sia in realtà costruito culturalmente e determinato storicamente.

“Che cos’è la bellezza? Una convenzione, una moneta che ha corso solo in un dato tempo e un dato luogo.”

La bellezza come convenzione nella frase di Henrik Ibsen

Dire che la bellezza è una convenzione significa riconoscere che essa non è un valore assoluto o universale, ma una costruzione collettiva che cambia nel tempo e nello spazio. Ciò che in un’epoca viene considerato bello, in un’altra può essere giudicato irrilevante, o addirittura sgradevole. Questo vale per i canoni estetici del corpo umano, della moda, dell’arte e dell’architettura.

Ad esempio, il corpo femminile florido celebrato nella pittura rinascimentale è radicalmente diverso dal corpo filiforme imposto dai media del XX e XXI secolo. Similmente, il volto idealizzato nella scultura classica greca non corrisponde agli standard di bellezza odierni, spesso influenzati da logiche di marketing e consumismo globale. Henrik Ibsen, nel suo sguardo penetrante sulla natura umana, smaschera l’illusione che vi sia una verità eterna nel concetto di bello: al contrario, esso è soggetto alle dinamiche sociali, politiche ed economiche di un determinato contesto.

La metafora della moneta

La seconda parte della citazione paragona la bellezza a una moneta con corso limitato: cioè, essa ha valore solo in un dato tempo e luogo, e può perdere il proprio potere di acquisto non appena cambia il contesto. È una metafora tanto semplice quanto potente: la moneta rappresenta il valore riconosciuto da una comunità, ma quel valore non è intrinseco all’oggetto in sé — né alla bellezza, né alla valuta — bensì nasce dall’accordo implicito tra coloro che lo accettano. Così come una valuta può smettere di circolare o essere sostituita, anche i canoni estetici possono decadere, trasformarsi, o venire rifiutati da una nuova generazione.

Questa visione relativista — che trova riscontri nella filosofia moderna, da Nietzsche a Foucault — è particolarmente significativa se considerata all’interno della drammaturgia ibseniana, che si oppone alla visione borghese e conformista dell’Ottocento.

Peer Gynt: l’uomo e le sue maschere

Nel contesto dell’opera, Peer Gynt è un poema drammatico che segue le avventure, spesso grottesche e surreali, di un uomo alla ricerca di sé stesso. Peer è un personaggio ambiguo, talvolta vigliacco, spesso ingannatore, che cerca di sfuggire al confronto con la realtà e con le proprie responsabilità. L’interrogativo sulla bellezza s’inserisce nel percorso di disillusione che lo porta a comprendere — con dolore — che molto di ciò che aveva inseguito nella vita era illusorio, convenzionale, effimero.

Per Peer, come per l’uomo moderno, la bellezza diventa uno dei tanti travestimenti con cui la società costruisce miti, ruoli e aspettative. Egli scopre che dietro le immagini seducenti e gli ideali sublimati non si cela una verità profonda, ma una superficie mutevole, plasmata dai gusti e dai poteri dominanti.

Questa citazione è anche una critica all’ideologia borghese dell’Ottocento, che tendeva a idealizzare la bellezza come misura del valore umano. Nella società vittoriana e positivista, la bellezza era spesso legata alla moralità, alla ricchezza, alla rispettabilità. Ibsen demolisce questa equivalenza e suggerisce che la bellezza non ha nulla di etico o permanente: è una funzione del contesto sociale. In un certo senso, l’opera di Henrik Ibsen anticipa le riflessioni di sociologi e antropologi contemporanei sulla costruzione sociale della realtà.

Implicazioni contemporanee

Oggi, la riflessione di Ibsen sulla bellezza risulta più attuale che mai. Nell’era dei social media, dell’estetica filtrata e degli algoritmi che impongono immagini standardizzate, la bellezza è divenuta una valuta digitale. Il numero di like, follower, visualizzazioni agisce come un sistema di scambio simbolico, in cui il valore di una persona viene spesso misurato sulla base dell’apparenza, e in cui il canone estetico viene costantemente manipolato dalle logiche di mercato. Le parole di Ibsen ci ricordano che questa bellezza così esibita non è “vera”, né tantomeno necessaria: è un costrutto, che può e deve essere messo in discussione.

Con questa citazione tratta da Peer Gynt, Henrik Ibsen lancia una provocazione che si estende ben oltre la questione estetica: ci invita a interrogarci sulla natura dei valori che regolano la nostra vita, e a riconoscere come molte delle certezze che accettiamo — dalla bellezza al successo, dalla morale al ruolo sociale — siano convenzioni temporanee, monete che valgono solo finché la società le accetta. In questo senso, la riflessione sulla bellezza diventa una porta d’accesso a una critica più ampia, filosofica ed esistenziale, che ci sollecita a guardare oltre le apparenze e a cercare una verità più profonda, più libera, e meno soggetta al mercato delle immagini.

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