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Alessandro Bergonzoni, ”La scrittura è una frequenza. Io antenna capto, accolgo e faccio abitare”

Prosa, poesia e teatro. Tanti sono i generi di scrittura attribuibili ad Alessandro Bergonzoni, protagonista ieri di un interessante intervento al Festival della Mente di Sarzana...

Lo scrittore, ospite ieri al Festival della Mente, ci parla del suo nuovo libro “L’amorte”, del mestiere di scrittore e dell’importanza della scrittura

MILANO – Prosa, poesia e teatro. Tanti sono i generi di scrittura attribuibili ad Alessandro Bergonzoni, protagonista ieri nel corso del Festival della Mente di Sarzana. In questa intervista il comico e scrittore ci da una sua personale definizione del concetto di creatività. Ci parla poi del suo ultimo libro, in uscita per Garzanti, “L’amorte”, e ci parla del suo personale rapporto con libri, lettura e scrittura.

Il filo conduttore del festival di cui è stato ospite questo weekend è la creatività. Come definisce il concetto di creatività?
Sicuramente è come esplosione di energia. La creatività è legata alla frequenza, all’onda, ad una potenza che l’uomo può più o meno leggere e captare. “Il genocidio”, ovvero il titolo dell’incontro del festival è proprio questo: noi continuiamo a far morire questa parte della creatività. Si tratta di un decesso continuo. Non esistono solo vittime fisiche, ma anche vittime neuronali, d’intelletto, vittime d’anima che muoiono costantemente, come se si perdessero delle qualità, dei sensi, quindi per me la creatività è questo tipo di esplosione.

E’ in uscita per Garzanti il suo ultimo libro “L’amorte”. Ci può spiegare il perché della scelta di questo titolo così particolare?
Questo titolo mi piaceva per una serie di motivi, sia per una questione d’orecchio che soprattutto per una questione visiva, perché se lo si legge avanti e indietro non c’è uno che prevale sull’altro, è continuamente amore e morte. Non si tratta  tuttavia in sé e per sé del tema di amore, thanatos, eros, ma è legato più a questo bisogno di scartare la parola morte, di aprirne il pacchetto e di guardarne dentro, e non tenerla come un dono o un danno serale. Tutto questo lavora sul tema delle morti, e legato al tema della vita della morte. Non della vita e della morte, ma della vita della morte.

Qual è il suo rapporto con i libri e la lettura?
Credo che ora i libri non si possano più leggere, ma si debbano scrivere, o meglio si debbano continuare a scrivere. So già la dinamica della retorica polemica che dice “tutti scrivono e nessuno legge”. Quando dico scrivere libri non intendo diventare tutti autori nel senso stretto della parola. Si tratta di far diventare il libro continuo, di modo da poterlo perpetrare costantemente. Non più il libro che chiudi e dici: “Che bella lezione ho avuto dall’autore”. A mio parere non si devono leggere più libi, ma devono essere continuati più libri. Ci deve essere progressivamente non una posizione passiva dell’osservazione nozionistico-accademica. In questo frangente io spesso parlo di quella che definisco come “cultura colluttoria”: non mi nutro di quello che leggo ed ascolto, ma me ne sciacquo la bocca. Non mi piace quando mi chiedono quali sono i libri che mi hanno cambiato la vita: a me i libri hanno cambiato la morte. Bisogna che ci sia una forma di creatività anche nel lettore, anche se il termine creatività mi piace poco e preferisco parlare di creazione.

Stilisticamente e concettualmente parlando, che differenza c’è tra lo scrivere in prosa, in versi e per il teatro?
Esclusa la scrittura per il teatro che è quella che “possiedo” di più, per quanto riguarda prosa ho scritto due tentativi di romanzi. Lo scarto della poesia è l’incisività, la nettezza, il taglio, la sintesi e la minatorietà. Per quanto riguarda il teatro si apre tutto un altro discorso. Per me la sceneggiatura teatrale nasce soprattutto dal pensiero e non certo dalla pagina. La pagina è soltanto l’ultima pista di atterraggio sulla quale arriva il pensiero. Per molti invece la pagina è il vero inizio della sceneggiatura. Io non ho mai guardato molto, sono sempre stato poco cinematografico, il mio teatro arrivava dalla dimensione del pensiero. Da quando faccio arte ho incominciato ad avere una dimensione anche tridimensionale della scrittura per il teatro. E’ un continuo scambio di fuori e di dentro. La scrittura è un vero e proprio dodecaedro. Come ho scritto anche nella seconda di copertina “Io non sono un autore, sono un autorizzato. Io non sono uno scrittore, sono uno scritturato. La scrittura è una frequenza. Io antenna capto, accolgo e faccio abitare.” Questo è il lavoro dello scrittore. Io non sono quello che ha scritto il libro “L’amorte”. Questo libro era già scritto, era in aere. Io ho avuto l’antenna per recepirlo, prenderlo e farlo accogliere.

2 settembre 2013

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