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Come comunicare correttamente sui social network

Bruno Mastroianni, giornalista e consulente per i social media di alcune trasmissioni televisive della Rai, nel libro "La disputa felice" spiega come gestire al meglio la comunicazione on-line

MILANO – È uscito nel 2017 “La disputa felice” (Franco Cesati Editore), un libro che insegna a “dissentire SENZA LITIGARE sui social network, sui media e in pubblico”, fitto di consigli ed esempi su come gestire al meglio la comunicazione on-line. Basta scorrere l’indice per rendersi conto della sua necessità (“C’è modo e modo”, “Disinnescare il conflitto”, “Uscire dalla propria ‘zona di sicurezza’, “Dissentire senza litigare”). Grazie alla estrema chiarezza nell’esposizione, esso si rivela talmente illuminante per contenuti che sarebbe forse utile introdurlo nelle scuole, per fondare una educazione alla comunicazione. Chi lo ha scritto è Bruno Mastroianni, filosofo e giornalista, docente e ricercatore, consulente per i social media di alcune trasmissioni televisive della Rai.

 

Seguire i suoi consigli richiede una elasticità e lucidità mentale, un possesso della lingua italiana e una onestà intellettuale, che mi permetto di definire non comuni, o perlomeno non diffusissimi. E spesso chi ha maturità e competenza, preferisce tirarsi fuori da situazioni in cui è costretto a confrontarsi con persone impreparate o, a priori, aggressive. Come conciliare le due cose?

È il centro della mia tesi. L’elasticità mentale, la padronanza della lingua, la capacità di confrontarsi con chi non è preparato e competente, in fondo non sono altro che competenze di comunicazione. Quello che sostengo è che la vita iperconnessa richiede che queste competenze diventino diffuse, di base, come il saper leggere e scrivere. Per molto tempo abbiamo vissuto con l’idea che comunicare fosse appannaggio solo di alcuni professionisti. Oggi tutti abbiamo uno smartphone in tasca che ci connette con il mondo; in quella stessa tasca idealmente dovremmo mettere la capacità di comunicare. È una sfida non tecnica, ma anzitutto educativa e culturale.

 

Ogni interlocutore è un degno interlocutore? Quando ignorare, non solo la provocazione o l’imperizia comunicativa dell’altro, ma proprio quella persona nella totalità del suo messaggio? In quali casi, se ve ne sono, è meglio insomma silenziare l’utente molesto? Ricorda un caso in cui la disputa felice le è parsa impossibile da imbastire?

Le persone non vanno mai ignorate. Così come le argomentazioni. Penso che si possano ignorare insulti e atteggiamenti irrazionali o violenti, ma se nelle parole dell’altro – anche se condite di elementi ostili – c’è dentro una domanda o un’argomentazione valida, quella non può essere ignorata. Nel libro propongo strumenti di autoanalisi per imparare sia a liberarsi nei propri discorsi di elementi aggressivi inutili, sia a riconoscerli negli altri e ignorarli. Facendo così si diventa capaci di non raccogliere la parte provocatoria delle parole dell’altro, per prendere in considerazione quella argomentativa (che c’è sempre). Questo stare sull’argomento senza prendersela, quasi sempre ridà fiato alla disputa. Le dispute non possono essere imbastite se uno dei due interlocutori non ha alcuna intenzione di ragionare, in quel caso va valutato se ha senso disputare per il bene del pubblico che assiste, altrimenti meglio lasciare perdere.

 

Dando una rapida occhiata alle pagine di personaggi famosi, profili con un quantitativo elevatissimo di followers, viene da pensare che il costo della popolarità sia quello di avere un numero indefinito di haters. Che consigli darebbe a chi gestisce una pagina infestata da messaggi di insulti?

Di non liquidarli tutti troppo superficialmente come “insulti”, ma di leggerli attentamente per trovare in essi le domande potenti e gli argomenti che ci sono sempre, anche quando sono mal posti. Si tratta di un patrimonio prezioso: è ciò che sentono le persone a un livello basilare, senza filtri. È facile discutere con i competenti, è facile fare pace con i pacifici; la sfida sociale che abbiamo tutti – e la hanno in particolare i personaggi pubblici e influenti – è ricostruire fiducia nei rapporti sociali. Questa fiducia passa dal prendere sul serio ciò che viene dalle persone, anche quando è qualcosa di sgradevole.

 

Come giudica il recente escamotage, messo in scena da vari programmi televisivi, di organizzare con l’inganno un incontro della vittima con il proprio carnefice? Se è vero che uno dei motivi che attirano gli utenti in rete è l’ottenimento di uno spazio di parola, magari negatogli nella realtà del quotidiano, non sussiste il rischio che si vadano a esacerbare i toni proprio per riuscire a ottenere questo tipo di confronto televisivo che, per forza di cose, porta fama (sebbene negativa)?

Il problema c’è, è ampio e non riguarda solo le trasmissioni a cui lei fa riferimento, ma investe tutti i media che, spesso, senza rendersene conto, diventano casse di risonanza di operazioni studiate a tavolino. Il metodo è quasi sempre lo stesso: certi interlocutori dicono cose inaccettabili, generano grazie a esse ondate di sdegno, i media amplificano l’ondata; alla fine il personaggio può approfittare del clamore ottenuto per posizionarsi. È quello che è successo recentemente con l’uso dell’espressione “razza bianca” da parte di un candidato che oggi dichiara di aver guadagnato “fama e consensi”. Credo che sia uno di quei fenomeni che dovrebbero richiamare a una sorta di responsabilità sociale: fare da cassa di risonanza con il proprio sdegno o regalando spazi mediatici a affermazioni appositamente dette per far reagire è come rendersi complici dell’azione provocatoria in cerca di visibilità. Il potere che ciascuno di noi ha di dare diffusione ai contenuti è enorme e va esercitato con cura. Online, se una cosa la contesti la diffondi; meglio dedicarsi a elaborare, a proporre, a offrire spunti, che a inseguire frasi e azioni negative, per criticarle.

 

Michel de Montaigne scriveva che “Il vero terreno e il vero oggetto dell’impostura sono le cose sconosciute”, individuando nella stranezza e nella scarsa familiarità con certi argomenti, il venir meno anche dei “mezzi per combatterle. […] Da ciò deriva che nulla si crede più fermamente di quel che meno si sa, e nessuno è più sicuro di sé di coloro che ci raccontano favole”. Come si può contrastare questa tendenza, secondo lei?

Oggi in effetti siamo nell’epoca delle certezze: crediamo di poter intervenire su tutto e, siccome non siamo tuttologi, nella maggior parte dei casi ne sappiamo poco: per questo procediamo per convinzioni quasi cieche. La conoscenza invece procede con un movimento opposto, direi di umiltà: si conosce quando si riconosce di essere rimasti un passo indietro, di essere manchevoli, di aver bisogno di approfondire prima di prendere posizione. Questa tendenza si può contrastare solo a partire dall’educazione. Occorre un nuovo tipo di atteggiamento che crei consapevolezza nei confronti della complessità in cui viviamo, come suggerisce nei suoi testi Piero Dominici. La società oggi ha aperto le possibilità dell’informazione potenzialmente a tutti, ma a questa apertura non è corrisposta una diffusione di strumenti culturali adeguati. C’è bisogno che a ogni livello – da quello scolastico a quello professionale, fino ad arrivare a tutte le pieghe del vivere sociale – si sviluppi un’ondata culturale in tal senso. Le faccio un esempio che riguarda la sfida per i giornalisti. Un tempo, il compito del reporter era semplificare la realtà per il lettore, perché eravamo in un mondo in cui solo alcuni accedevano alle informazioni. Oggi che l’accesso alle informazioni è quasi libero per tutti, il giornalista deve fare il lavoro contrario: ricordare agli occhi del lettore la complessità della realtà, per aiutarlo a non cadere nei tranelli delle percezioni, delle convinzioni mal riposte, nei pregiudizi di conferma.

 

Un social network come Facebook contempla il meccanismo per cui, se chi gestisce quella pagina replica a un messaggio, di qualunque natura esso sia, quello finirà in cima alla lista, divenendo il più visibile, e andando quindi a raccogliere immediatamente consensi e opposizioni da altri utenti. In questo senso, non risulta controproducente rispondere a un messaggio provocatorio?

Risulterebbe controproducente se nel messaggio (e nella sua provocazione) non ci fosse nessun elemento che possa dare occasione per spiegare qualcosa. Bisogna tornare ad alcuni principi base del giornalismo e della pratica dell’ufficio stampa. Un tempo si diceva: rettificare è come dare due volte la notizia negativa, e quindi si approfittava delle rettifiche solo per dire qualcosa in più, valutando l’opportunità di sfruttare tale possibilità in base ai propri temi di interesse. Con i commenti va fatto lo stesso: il social media manager deve valutare se nelle parole dell’altro, per quanto mal espresse e ostili, ci sia una argomentazione a cui vale la pena dare una risposta, non tanto per convincere l’interlocutore (che probabilmente rimarrà sulle sue), ma per parlare al pubblico più ampio che leggerà.

 

Nella lettura del suo bellissimo libro, mi è parso tuttavia che non considerasse la pigrizia di una ampia fetta di utenti che preferisce spingere “Mi piace” a un commento provocatorio, piuttosto che andarsi a leggere tutto il dibattito che ne segue. Si lamenta spesso che, a fronte di dieci persone interessate ad arricchirsi nel confronto, ve ne siano più del doppio che riservano alla rete un atteggiamento “usa-e-getta”, per cui anche un video esplicativo di pochi minuti, la lettura di un articolo di qualche centinaio di parole costano troppa fatica. Lei stesso scrive in più punti che “spiegarsi al meglio” è un impegno. Come è possibile dialogare con chi non è disposto a impegnarsi?

Intanto c’è da dire che dialogare non è mai un’azione persa. Anzitutto, per chi fa lo sforzo del dialogo, è sempre un modo per mettersi alla prova, per trovare migliori modi di esprimersi, migliori argomentazioni, ecc. Chi lo fa abitualmente affina sempre più la sua intelligenza, molto più di chi si circonda solo di affini con cui condivide ogni opinione. Discutere poi non è mai un’azione in perdita anche per quella che definisco massa silenziosa: per quando ci sia un certo numero di persone ostili che aggrediscono, un altro certo numero di utenti che li seguono con i loro like, e una quota di persone che seguiranno il tutto con superficialità, c’è poi il numero sconfinato di chi leggerà quelle interazioni, anche nel tempo, pur non avendo reazioni visibili al momento. In quella massa ci sono gli interlocutori più interessanti.

 

Nel suo La reputazione, Gloria Origgi (Università Bocconi Editore, 2017) citava il sociologo turco Timur Kuran che sostiene che “una delle ragioni per le quali i cambiamenti politici, come le rivoluzioni, sono così difficili da prevedere, dipende dallo scarto tra ciò che la gente pensa di dover ammettere pubblicamente di preferire e ciò che preferisce realmente.” Come è possibile, secondo lei, contrastare questa “ignoranza pluralistica” che vive proprio della necessità di mostrarsi costantemente in possesso di una opinione in merito a ogni cosa?

Prendendola sul serio. Esprimere un’opinione su tutto ha lo svantaggio di risultare sgradevole e rumoroso, ma ha anche un vantaggio: fa vedere nero su bianco cosa tirano fuori le persone dal profondo (per quanto lo tirino fuori in forme inadeguate). Consiglierei a ogni personaggio politico di leggere molto attentamente i commenti ai propri contenuti e lo consiglierei a istituzioni, aziende, organizzazioni e tutti gli interlocutori socialmente rilevanti. In quella massa informe troveranno sì molta aggressività, ignoranza e grettezza, ma assieme a esse pensieri, idee, sentimenti, percezioni della gente con cui cercano costantemente di sintonizzarsi. Scopriranno che in quell’insieme ci sono molte più domande ben assestate di quanto non si pensi. Liquidare tutto velocemente come ignoranza aggressiva è spesso un alibi per non rispondere. È proprio lì, in quelle domande non risposte, che si crea il vuoto di cui è capacissimo di approfittare il populismo per trasformarle in consenso.

 

Quale è l’aspetto maggiormente positivo del suo lavoro? Ricadute negative ne ha? Delle tante dispute che ha positivamente instaurato negli anni, ne ricorda una particolarmente felice?

Di ogni disputa ho un doppio sentimento: fatica, perché mi ha costretto a pormi domande sulle mie certezze e convinzioni; soddisfazione, perché mi ha fatto scoprire qualche aspetto nuovo della realtà. Per anni sono stato un “blastatore”, uno che dall’alto delle sue conoscenze era in grado di azzittire l’altro. Mi sono perso molte sfumature della realtà in quel periodo, perché non mi accorgevo di una cosa che oggi per me è cruciale: è dal dissenso che nascono le migliori idee, è quando ci si parla tra persone che non sono d’accordo che si produce la migliore comunicazione.

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