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Adolescence, la serie tv che scuote le coscienze

Esplora "Adolescence", la serie tv che scuote le coscienze e affronta le sfide di questa fase cruciale della vita.

Adolescence è una  serie su Netflix che in poche settimane è riuscita a smuovere l’opinione pubblica, accendere un dibattito nazionale nel Regno Unito e commuovere milioni di spettatori: si chiama Adolescence, ed è uno di quei titoli che non si dimenticano facilmente. Un pugno nello stomaco, ma anche un grido d’allarme. Una miniserie in grado di raccontare con precisione chirurgica  e un’emotività rara il caos interiore dell’adolescenza, in un’epoca dominata dai social, dal silenzio emotivo, dalla crisi della mascolinità e dal disagio giovanile.

Adolescence è una serie che si guarda con il cuore in gola e la mente in allerta. Non è semplice intrattenimento, ma un’esperienza che rimane addosso. Un invito a parlare, ad ascoltare, a rimettere al centro l’adolescenza come stagione delicata e fondamentale della vita.

È una serie che genitori, insegnanti, educatori, ma anche semplici spettatori,  dovrebbero vedere. Perché parla di tutti noi. E soprattutto, dei nostri figli.

Adolescence: la serie tv tanto discussa, perché ne discutiamo e di cosa parla

La storia ruota attorno a Jamie Miller, un ragazzo di tredici anni accusato dell’omicidio della compagna di scuola Katie Leonard. Ma Adolescence non è un semplice crime drama. È piuttosto un viaggio nella mente e nel cuore di un adolescente schiacciato da paure, aspettative e pressioni che arrivano da ogni direzione: famiglia, scuola, società. Ogni episodio, quattro in tutto, è girato con la tecnica del piano sequenza, senza stacchi di montaggio, immergendo lo spettatore in una narrazione tesa e claustrofobica, come la vita del protagonista.

L’approccio registico è coinvolgente e destabilizzante: lo spettatore si ritrova a seguire la storia come se fosse un testimone silenzioso, incapace di intervenire. Il tempo narrativo si dilata, si incolla alla pelle, e il disagio cresce. È un’esperienza più che una visione.

Perché tutti ne parlano

Sin dal suo debutto, Adolescence è diventata virale. È stata la serie più vista su Netflix nel mondo per oltre una settimana, e in Inghilterra ha scatenato un dibattito trasversale che ha coinvolto anche esponenti politici e figure istituzionali. Il motivo? Il modo diretto con cui affronta la “manosfera”, ovvero quell’universo di contenuti online tossici e misogini che, silenziosamente, plasmano l’identità di molti adolescenti maschi.

La serie non accusa, non generalizza, non si appoggia a cliché. Mostra. E nel mostrare, obbliga lo spettatore a fare i conti con una realtà scomoda: ragazzi soli, affascinati da figure carismatiche e manipolatrici su YouTube o TikTok, privi di un’educazione emotiva, abbandonati a un mondo adulto che non sa più ascoltarli. L’eco dei forum incel, della rabbia repressa, del bisogno di appartenere a un gruppo, anche se tossico, risuona in ogni scena.

La forza dei personaggi

Il cuore pulsante di Adolescence è Owen Cooper, giovane attore esordiente che interpreta Jamie con una delicatezza disarmante. Il suo volto, perennemente sospeso tra colpa e desiderio di comprensione, diventa specchio di una generazione che fatica a trovare parole per dire come sta.

Ma il personaggio più complesso e sorprendente è Briony Ariston, la psicologa scolastica interpretata da Erin Doherty. In particolare, c’è una scena che ha fatto discutere molto: quella del “panino”. Durante una sessione con Jamie, Briony spezza in due il proprio panino e ne offre metà al ragazzo. È un gesto semplice, quasi banale, ma carico di significato. È un invito all’intimità, un modo per scardinare la tensione, un test per osservare la reazione di un adolescente abituato alla diffidenza. In quel frammento c’è tutta la poetica della serie: ascoltare, vedere davvero, tendere una mano anche quando non si ha la certezza che verrà afferrata.

Cosa ci dice “Adolescence” sull’adolescenza di oggi

Questa serie non offre risposte, ma pone domande fondamentali. Cosa succede quando i ragazzi non riescono a comunicare? Quando le famiglie si rifugiano nel silenzio o nella negazione? Quando la scuola non riesce più a essere un luogo sicuro? Quando internet diventa un genitore surrogato?

Adolescence è anche un atto d’accusa nei confronti di una società che ha perso il contatto con la vulnerabilità. Jamie non è un mostro, è un prodotto. Di una cultura che ha insegnato ai maschi a non piangere, a non parlare, a non chiedere aiuto. La serie non giustifica, ma spiega. Mostra le crepe, i vuoti, le ferite non curate.

Una lezione di regia e scrittura

Girare ogni episodio in un unico piano sequenza è una scelta coraggiosa e perfettamente riuscita. Non solo per ragioni estetiche, ma perché restituisce il senso dell’ineluttabilità. Gli eventi accadono, e lo spettatore non può fuggire. È una rappresentazione visiva del sentirsi in trappola, dell’angoscia che cresce e che non può essere ignorata. A livello di scrittura, la serie è costruita con intelligenza e rispetto: ogni personaggio, anche il più secondario, ha una sua profondità, un suo passato, una sua voce.

Il valore sociale della serie

In un tempo in cui i ragazzi sono spesso raccontati in modo semplicistico, come “sdraiati” o “apatici”, Adolescence ha il merito di dare dignità al disagio giovanile. E lo fa con uno sguardo empatico e spietato allo stesso tempo. I creatori della serie, Jack Thorne e Stephen Graham, hanno dichiarato di aver voluto raccontare una storia “necessaria”, perché il tempo per agire è adesso.

Il fatto che persino il Primo Ministro britannico abbia citato la serie in un discorso pubblico dice molto sull’impatto culturale che ha avuto. Ha aperto una conversazione urgente sulla salute mentale, sulla cultura online, sulla necessità di nuovi modelli educativi per i giovani maschi.

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