Fëdor Dostoevskij, nel suo romanzo Il giocatore, ci presenta una delle sue celebri riflessioni sulla condizione umana con una frase potente dato che queste poche righe si racchiudono alcune delle tematiche più profonde e caratteristiche dell’autore russo: il senso di sconfitta, la redenzione e la ricerca dell’essenza umana.
“Che sono io, adesso? Uno zéro. Che cosa posso essere domani? Domani posso resuscitare dai morti e ricominciare a vivere! Posso trovare l’uomo in me stesso, fino a che non è ancora andato perduto!”
Fedor Dostoevskij e il romanzo che lo salvò dai debiti di gioco
Il giocatore è un’opera che riflette intensamente sul degrado morale e psicologico causato dall’ossessione per il gioco d’azzardo, una passione che incatena il protagonista, Aleksej Ivànovic, in un circolo di distruzione e autodistruzione. Qui Dostoevskij scava nella psiche umana, nel conflitto tra il desiderio di cambiamento e la realtà della propria debolezza.
La frase citata rappresenta un momento di consapevolezza e di autocritica del protagonista: si riconosce come un “niente”, uno “zero”, ma non si arrende all’idea che questo sia il suo destino definitivo. Al contrario, percepisce la possibilità di un cambiamento, l’idea di una sorta di rinascita interiore, di “resurrezione”, in cui riemerge la speranza di recuperare la propria umanità.
In un certo senso, Dostoevskij propone un ritratto della vita come un susseguirsi di cadute e di risalite. Aleksej, caduto in una spirale di perdizione, si trova sull’orlo del baratro, ma proprio in quel momento riesce a scorgere una via d’uscita, una possibilità di trasformazione. In questo aspetto, il pensiero di Dostoevskij si avvicina alle tradizioni spirituali del cristianesimo ortodosso, in cui la resurrezione non è soltanto un evento religioso, ma una metafora della rinascita spirituale dell’individuo.
L’”uomo nuovo”, ovvero l’uomo liberato dai propri demoni e desideri più oscuri, è una figura che si ritrova spesso nelle opere di Dostoevskij, come in Delitto e castigo e I fratelli Karamazov, dove anche il peccato più profondo può essere redento attraverso la sofferenza e il pentimento.
Aleksej, Alterego di Fedor Dostoevskij
Questa possibilità di “resurrezione” è strettamente connessa alla libertà di scelta dell’individuo. Dostoevskij non credeva in una predestinazione totale, ma sosteneva l’idea che ogni persona, anche nel momento più oscuro, potesse scegliere di risorgere e cambiare. Il concetto di “zero” usato da Aleksej è emblema di una sorta di nichilismo temporaneo, una negazione del proprio valore e scopo, ma allo stesso tempo è anche la base per una rinascita. Se l’uomo è “zero”, ha la possibilità di essere tutto; è nel vuoto di sé stesso che può trovare la spinta per costruire qualcosa di autentico e significante.
Il monologo di Aleksej può essere letto anche come un grido di ribellione contro la società e le sue etichette. Essere ridotto a uno “zero” significa spesso sentirsi fallito agli occhi del mondo, ma questa condizione porta a una riconsiderazione di cosa significhi realmente essere “umano”. Non è la ricchezza, il successo o il potere a definire il valore dell’individuo, ma la sua capacità di risollevarsi, di rigenerarsi dall’interno. L’essenza dell’essere uomo per Dostoevskij non risiede nei successi esteriori, ma nella ricerca costante della propria verità, nel riconoscere i propri limiti e nel superare le proprie debolezze.
Dostoevskij ci invita a considerare la nostra umanità come una costruzione che va perseguita attivamente. La frase di Aleksej è un richiamo a guardare dentro di sé, a riconoscere le proprie ombre e a impegnarsi per superarle. La redenzione, quindi, non è un traguardo facile o scontato, ma una lotta quotidiana contro le tentazioni e i fallimenti. L’uomo di Dostoevskij è un combattente spirituale, che, pur consapevole delle proprie mancanze, cerca di ritrovare un senso e una dignità, anche nelle situazioni più disperate.
L’affermazione “posso trovare l’uomo in me stesso” racchiude dunque un messaggio di speranza e di fiducia nelle potenzialità di ciascuno di noi. Anche nelle situazioni di maggiore sconforto e disperazione, Dostoevskij ci dice che è possibile risorgere, che è possibile “ricominciare a vivere” riscoprendo il proprio valore. Il giocatore diventa così non solo una denuncia dei vizi e delle debolezze umane, ma anche un inno alla possibilità di rinascita e di riscoperta del sé, un cammino che richiede coraggio, ma che porta, infine, alla conquista della propria umanità.