Dal successo planetario di Squid Game alla diffusione globale del K-pop, passando per i drammi coreani su Netflix, le beauty routine a 10 step e i ramen nei supermercati italiani: la Corea del Sud non è più solo una nazione, è diventata un immaginario collettivo. Un luogo desiderato, idealizzato, consumato.
In questo contesto si inserisce Made in Korea, il nuovo libro di Noemi Pelagalli, che ci accompagna in un viaggio tra luci e ombre del Paese del calmo mattino.
Un racconto lucido, documentato e personale, che ci invita a guardar oltre la superficie patinata dei contenuti virali per interrogarci su cosa ci attira davvero di questa cultura e cosa ci dice, in fondo, di noi.
L’abbiamo intervistata per farci raccontare com’è nato il libro, come si vive il “mito Corea” da vicino e quali domande ci restano in tasca, una volta spenti gli schermi.
Da Squid Game alla cultura pop coreana: intervista a Noemi Pelagalli, autrice di “Made in Korea”
Made in Korea è molto più di un diario di viaggio: è una lente d’ingrandimento su un’ossessione culturale che, in pochi anni, ha trasformato una nazione in un brand globale.
L’interesse esploso con Squid Game ha aperto le porte a una Corea che prima sembrava lontana e ora è ovunque: nei tour organizzati a Seoul, nei corsi di lingua improvvisati, nei look copiati su TikTok, nelle librerie che iniziano a dedicare spazi alla letteratura coreana.
Ma come ricorda Noemi Pelagalli, dietro ogni tendenza c’è un’identità complessa, stratificata, spesso semplificata. E comprendere davvero la Corea, con le sue contraddizioni, le sue pressioni sociali, il suo fascino, è forse l’unico vero viaggio culturale che oggi valga la pena intraprendere.
Nel libro “Made in Korea” parli della Corea come “ luogo dello stupore”. Quando hai capito che questo paese sarebbe diventato un punto fermo della tua vita e del tuo lavoro?
La Corea è un paese unico nel suo genere, piena di enormi contraddizioni. Quando ci si reca per la prima volta non si può non restare colpiti dal divario che regola l’altissimo e il bassissimo, che riguarda ogni aspetto della vita e della società. Un contrasto che può respingere o attrarre fatalmente, come è accaduto a me.
Il primo impatto è stato molto potente. Mi ha permesso di cambiare il punto di vista sulle persone e sulla loro realtà. Io ho capito che la Corea non avrebbe smesso di stupirmi quando ho accettato che non vi avrei trovato vie di mezzo. Come una zona liminale, esercita su di me un forte richiamo.
Ogni volta che mi ci reco è in grado di darmi un altro buon motivo per visitarla perché niente è come sembra, non si può dare niente per scontato. E questa visione d’insieme, lucida e netta, l’ho avuta un tardo afoso pomeriggio sulla sommità dell’Ihwa Mural Village, osservando Seoul dall’alto con il fiatone per la fatica della salita. Una città vestita di oro del tramonto, dove il futuro vive nel presente, e dove il passato non si sgretola.
Nell’introduzione racconti il tuo primo incontro con la cultura coreana attraverso una ragazza conosciuta in vacanza. Cosa ti ha colpita di più di quel primo contatto?
Quando ero molto giovane non era comune vedere in vacanza in Italia giovani orientali con la famiglia. I miei ricordi sono popolati da grandi comitive di giapponesi che giravano in gruppo per le principali città, capitanati da una guida, senza avere contatti con i locali. Così, presi coraggio e andai a parlarle. Nella mia ingenuità, credevo fosse giapponese, del resto non avevo mai conosciuto una persona coreana. Mi raccontò della sua città, Seoul, del tempo libero trascorso al noraebang, il karaoke, e di quanto fosse importante per i suoi coetanei eccellere negli studi.
Possedeva un cellulare che sembrava balzato fuori dal futuro, con lo schermo a colori e la funzione di scattare fotografie – un oggetto avveniristico per quel periodo. Mi resi conto di quanto fosse miope all’epoca la visione occidentale rispetto ai popoli asiatici. Quasi sempre catalogati in blocco come “cinesini”, con aria di superiorità e sprezzo, in realtà erano ovviamente tutti diversi, con le loro complessità, e già molto moderni.
Scrivi che la Corea è uno dei Paesi più polarizzati al mondo. In che modo questa spaccatura tra Nord e Sud influenza ancora oggi la narrativa mediatica e culturale globale?
Quando si parla di Corea nella testa di molte persone scatta un campanello e subito ci si preoccupa. Sebbene l’onda coreana sia enormemente diffusa in tutto l’Occidente oggigiorno, in realtà la maggior parte delle persone non ha un’idea precisa di come sia la Corea del Sud e quella del Nord. Questo perché, a mio avviso, aldilà delle opere di finzione come i K-drama, nell’immaginario occidentale ancora oggi non esistono immagini chiare.
Le generazioni meno giovani tendono a concentrarsi solamente sulle notizie che riguardando la Corea del Nord, pilotate dalla propaganda, immaginando così l’intera penisola come un luogo spaventoso e instabile. La verità è che quando si visita la Corea del Sud ci si rende conto di trovarsi in uno dei paesi più sicuri del pianeta. Gli stessi sudcoreani non si curano minimamente di ciò che succede al Nord e la situazione è perfettamente sotto controllo.
Hai dichiarato che spesso si tende a paragonare la Corea al Giappone, ma che questo è un errore. Perché è così importante superare questo stereotipo?
Perché semplicemente sono due Paesi diversi, ognuno con la sua identità e la propria evoluzione. Solamente perché sono geograficamente vicini e possono avere qualcosa di simile, non significa che uno sia meno interessante dell’altro. La Corea è un paese con una storia millenaria, di cui si sa pochissimo perché ci si è interessati in tempi molto recenti.
Il fatto di avere un “vicino di casa ingombrante” come il Giappone, che l’ha oscurata anche militarmente, ha fatto apparire la Corea come un satellite del Sol Levante. Questo stereotipo è stato portato avanti per tanti anni in Occidente e ancora adesso persiste. Oggi esistono gli strumenti per andare oltre questa visione distorta, così da conoscere e sapere apprezzare la Corea nella sua interezza.
Il concetto di “ han”, che descrivi come un dolore collettivo e intergenerazionale, è centrale nel tuo libro. Come pensi che questo concetto influenzi l ’ arte e la letteratura coreana?
Tutto ciò che riguarda la Corea è imbevuto di han, un concetto intraducibile nella nostra lingua. Han è percepibile nelle opere d’arte coreane, figurative e letterarie, attraverso una profonda e radicata malinconia. Non si può comprendere il sentimento coreano senza addentrarsi nel dolore di questo popolo che ha lottato per l’affermazione della propria identità e per la libertà. Solo recentemente, grazie alla traduzione di opere eccezionali come quelle di Han Kang, possiamo calarci in quella che è la peculiarità del popolo coreano: la resilienza.
Il tuo percorso parte dal cibo: da Hana a Milano fino ai ristoranti parigini e alle ricette sul blog. Che ruolo ha avuto la cucina coreana nel tuo avvicinarti al Paese e nel comunicare la sua identità?
Per me il cibo è cultura. E’ un linguaggio immediato: dice esattamente tutto di un popolo, dalla geografia agli usi e costumi. Il mio è stato un percorso verso la fonte: sono partita dal mio Paese, poi appunto sono stata in Francia e, infine, ho potuto gustare il vero cibo coreano in Corea. E ogni volta era una scoperta interessante perché mi rendevo conto di quanto gli stereotipi fossero forti nel presentare questo tipo di cucina.
Innanzitutto perché in Europa la proposta è molto limitata – in Corea non mangio mai due volte la stessa cosa, tralasciando il kimchi ovviamente. Poi perché i gusti sono sfaccettati. Nell’immaginario comune il cibo coreano è piccantissimo e ha sempre un odore forte e pungente. In realtà esistono tanti piatti diversi, anche molto delicati. Quando organizzo i viaggi di gruppo sono sempre felice di fare provare queste sfumature ai partecipanti, per me è davvero molto importante. Lo stupore per questo paese si genera anche a tavola!
Nel libro citi diverse tappe storiche della Corea antica, come la dinastia Silla o il regno Goryeo. Qual è il periodo storico coreano che ti affascina di più e perché?
Sicuramente il periodo Joseon è quello che esercita la fascinazione maggiore, in quanto epoca di grande splendore culturale, artistico e gastronomico. Il “Rinascimento coreano” è stato magnificato in K-drama, riecheggia perfino nei prodotti di bellezza, ha posto le basi per molte ricette apprezzate ancora oggi, ha segnato in modo indelebile gli usi confuciani. Non può non suscitare interesse e meraviglia. Per questo motivo quando si visita la Corea è interessante visitare i luoghi di quel magnifico periodo storico.
Secondo te, cosa non viene ancora capito del fenomeno Hallyu in Occidente? Qual è l’ errore più comune nell’ approccio alla cultura pop coreana?
Come tutti i fenomeni legati alle culture giovanili (e pertinenti al giovanilismo), anche la hallyu viene percepita da molti come qualcosa di effimero e passeggero. Certamente è un fenomeno in larga parte artefatto, frutto di scelte consapevoli che riguardano il soft power. Tuttavia è un errore considerarlo in maniera del tutto superficiale perché, a mio avviso, veicola cultura, usi e costumi. Attraverso il cinema e i K-drama l’Occidente ha iniziato ad avere un’immagine più nitida della Corea. E’ grazie al K-pop che molte persone hanno familiarizzato con una lingua così diversa, magari decidendo di studiarla all’università. La hallyu è un trampolino per saltare all’interno di un paese interessante e fortemente variegato.
Molti lettori scopriranno con questo libro che la Corea non è solo K-pop e K-drama, ma anche spiritualità, mitologia e filosofia. C’è un aspetto della tradizione che ti ha cambiato o influenzato nel profondo?
Sebbene la Corea sia stata a lungo oggetto di dominazioni, militari e culturali, la sua grandiosità sta anche nell’avere saputo mantenere una propria identità spirituale, come ad esempio lo sciamassimo. Una forma religiosa antichissima, peculiare, che non può lasciare indifferenti. Non posso dire che l’aspetto mistico mi abbia influenzato nel profondo, ma senza ombra di dubbio ha generato in me un enorme interesse dal punto di vista antropologico.
La fede in Corea è un argomento molto importante: ovunque esistono chiese, sette, mega-chiese, croci sopra i tetti, imbonitori, lettori di carte e della mano. Religione, filosofia, spiritismo, millenarismo… tante sfaccettature e credenze unite e strumentalizzate da santoni. Questo è un aspetto cruciale della realtà coreana, che suscita in me enorme curiosità.
“Made in Korea” è un libro personale ma anche divulgativo. Cosa speri che i lettori italiani portino con sé alla fine di questo viaggio?
Ho desiderato unire in un libro tutte le sfaccettature della Corea, del Nord e del Sud, per dare per la prima volta in Italia un quadro quanto più completo dell’intera penisola. E l’ho fatto attraverso la mia esperienza personale e i fatti: la storia, ciò che ha fatto e che ha subito il popolo coreano. “Made in Korea” è rivolto a tutti, sia a chi è appassionato di Corea, sia a chi non sa nulla. Della Corea si ha una sola visione, il bianco o il nero. E io mi auguro che i lettori italiani portino con sé un nuovo punto di vista perché è così che, secondo me, bisogna approcciarsi alla vita.