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Ottavia Piccolo, “Il ridicolo allevia la tristezza e ci aiuta a leggere il mondo”

L’attrice racconta il suo rapporto con Ariosto e col ridicolo. Non ha sogni nel cassetto ma un unico grande desiderio

LIVORNO – Ha lavorato a teatro con i più grandi registi italiani, da Visconti a Strehler, da Ronconi a Lavia, da Cobelli a De Lullo. Protagonista in tanti film, è stata diretta per il grande schermo, tra i tanti, da Ettore Scola e ancora da Visconti.  Ma non ha disdegnato ruoli secondari, come quello dell’analista in Tu la conosci Claudia? con Aldo, Giovanni e Giacomo. E tra poco sarà al cinema nuovamente con la trasposizione cinematografica di uno spettacolo teatrale intitolato 7 minuti. Il suo nome è Ottavia Piccolo e al Festival “Il senso del ridicolo” di Livorno ha letto e commentato brani di Alan Bennett ma soprattutto versi dell’Orlando furioso, nel cinquecentesimo anniversario della sua prima edizione. L’abbiamo intervistata durante il Festival. Ecco cosa ci ha raccontato.

Qual è il suo rapporto con Ariosto e il Furioso?

Ho portato prima in teatro e poi al cinema l’Orlando furioso con Luca Ronconi. L’ho frequentato a lungo per queste ragioni. È stato un successo strepitoso, nonostante molti critici l’abbiano criticato. Io avevo vent’anni e non l’avevo mai letto, Orlando, perché quando i miei compagni andavano a scuola e lo studiavano in classe, io lavoravo già come attrice e non avevo tempo per studiare altro che le mie parti. Infatti, quando Ronconi mi aveva raccontato come doveva essere la messinscena di Orlando, io non ci avevo capito niente ma avevo accettato di partecipare ugualmente.

Qual è il passo che più la diverte dell’Orlando furioso?

Ce ne sono tanti ma uno mi fa ridere particolarmente. Ariosto racconta a un certo punto di un incontro tra Angelica e un vecchio frate, al quale lei aveva dato fiducia, visto che appunto era vestito da frate. Invece è un negromante, che addormenta la bella giovane e tenta di violentarla. Solo che, siccome è vecchio e male in arnese, “l’uccello non salta”, scrive Ariosto. Non so come dirlo con parole non oscene, ma sta di fatto che il suo arnese non riesce a combinare niente e a quel punto si addormenta senza violentare Angelica. Questo è un esempio del fatto che Ariosto abbia raccontato anche cose un po’ osé, tuttavia sempre in modo molto attento e ironico. Adoro il fatto che i suoi famosi paladini e cavalieri, in genere sono dei gran pasticcioni, dei gran cialtroni.

L’ultimo spettacolo con cui sei stata – e sarai ancora – a teatro è stato Enigma (con la regia di Silvano Piccardi). Il titolo, tra le altre cose, rimandava appunto all’enigma costituito per noi dal mondo, che – come lei ha detto qualche mese fa in un’intervista per PalcofONico – “non ha più sicurezze, non ha più certezze”. Il ridicolo – al quale è dedicato il Festival di Livorno – ha qualche speranza di risolvere l’enigma o può perlomeno, almeno per qualche minuto, farcelo dimenticare?

Secondo me può alleviare qualche momento di tristezza ma nello stesso tempo può aiutarci a leggere il mondo, perché se noi guardiamo alle cose con un occhio meno serioso, meno grave, forse riusciamo a interpretare meglio i fatti e a farcene una ragione. Il ridicolo ci può far vivere un po’ meno peggio. Io cerco sempre di guardare anche il lato ridicolo, se vogliamo, delle cose. Aiuta, ecco. Non risolve, ma aiuta.

Durante la sua vita ha già realizzato cose bellissime. Ma ha ancora un sogno nel cassetto, o forse più di uno?

No, io i sogni nel cassetto non li ho mai avuti, nel senso che sono stata molto fortunata e il mio lavoro mi ha aiutata a sentirmi realizzata. Non c’è una cosa che voglio fare. Il mio desiderio, però, è di continuare a vivere in buona salute per poter lavorare. Non a caso, i miei miti di oggi sono Judi Dench, Helen Mirren, Maggie Smith o – se penso al cinema italiano – Franca Valeri, tutte attrici con almeno settant’anni sulle spalle che continuano a lavorare. Pensiamo anche ad Albertazzi, che ha lavorato fino a novant’anni. Il mio desiderio è continuare a lavorare fino a che il fisico mi regge e spero che regga il più a lungo possibile.

Per concludere, quale consiglio darebbe a un giovane che vorrebbe vivere di teatro? Quale ritiene che sia lo stato di salute del teatro italiano?

Dello stato di salute del teatro potremmo stare qui due o tre giorni a parlarne. È in un momento molto difficile. Quello che posso dire a un giovane, a una giovane, è di cercare di capire bene se è proprio quello che vuole fare perché è tanto complesso e in questo momento più complicato che in altri momenti, perché la voglia di fare un mestiere come il mio viene confusa con la voglia di apparire. Però, se proprio questo giovane, o questa giovane, ha la passione, allora deve provarci.

Dario Boemia

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