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Luis Alfaro traduce le tragedie greche in storie contemporanee

Luis Alfaro traduce le tragedie antiche greche in storie contemporanee. È il caso della Medea che diventa la storia di immigrati

MILANO – Le tragedie greche costituiscono un preziosissimo repertorio per la nostra civiltà perché racchiudono i semi della nostra cultura. Cambiano i tempi, cambiano i luoghi, ma quei semi seminati da Eschilo, Sofocle e Euripide, danno sempre i loro frutti. È da questo aspetto che prende spunto il regista Luis Alfaro. Infatti questo mese il Public Theatre di New York manda in scena la versione “contemporanea” della Medea di Alfaro, che appunto si intitola “Mojada”.

La Medea è una storia di immigrati

Luis Alfaro è il regista di origini messicane che vuole tradurre le tragedie antiche greche in storie contemporanee. L’idea è sorta durante un ciclo di lezioni di recitazioni per carcerati: una tredicenne messicana si trovava in carcere per aver ucciso la madre, perché aveva fatto ammazzare il padre. Ad Alfaro venne in mente immediatamente l’Elettra di Sofocle. E così venne creata “Electricidad“, l’opera teatrale che prendendo ispirazione dalla tragedia e dalla storia della ragazzina.
In Mojada invece si “traduce” la Medea di Euripide. L’eroina del tragediografo è un’immigrata e così se la spostiamo nel quartiere newyorkese del Queens, la facciamo lavorare vicino a una macchina per cucire, abbiamo una Medea dei nostri giorni. Infatti il marito la tradisce con la sua datrice di lavoro americana. La donna è accecata dalla vendetta, che inevitabilmente ricade anche sui figli.

Per Luis Alfaro la tragedia è eterna

Le tragedie del passato si trovano nelle trame del nostro presente. La tragedia greca è eterna, perché parte essenziale della nostra identità. E Luis Alfaro lo dimostra molto bene. Con le sue trasposizioni in chiave contemporanea dimostra che anche se si cambia luogo e protagonisti la storia non cambia. I tragediografi antichi hanno posto le basi, hanno scritto nero su bianco le linee direttive della nostra civiltà e della nostra cultura.

Via: The New York Times

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