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Buon compleanno Giorgio Caproni, le 10 poesie più belle dell’autore livornese

Il 7 gennaio 1912 nasceva Giorgio Caproni, il "poeta del sole, della luce e del mare", ecco una raccolta delle sue poesie più belle.

Il 7 Gennaio 1912 nasceva Giorgio Caproni, uno dei più grandi poeti italiani del Novecento. Carlo Bo, uno dei suoi primi critici, lo definì il “Poeta del sole, della luce e del mare”.

I temi portanti della poetica di Giorgio Caproni sono: la madre, rievocata e ricordata in molte poesie; Genova, considerata la sua “città dell’anima”; il viaggio, un viaggio allegorico alla scoperta della vita.

In occasione del suo anniversario della sua nascita, ecco una raccolta delle poesie più belle.

Generalizzando, Giorgio Caproni

Tutti riceviamo un dono.
Poi, non ricordiamo più
né da chi né che sia.
Soltanto ne conserviamo
– pungente e senza condono –
la spina della nostalgia.

(da Res Amissa, Milano, Garzanti 1991)

Sassate, Giorgio Caproni

Ho provato a parlare.
Forse, ignoro la lingua.
Tutte frasi sbagliate.
Le risposte: sassate.

Alba, Giorgio Caproni

Amore mio, nei vapori d’un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rinfresco anche l’occhio, ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?… Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dormi, ora che in vece la tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte
qui, col tuo passo, già attendo la morte.

(da Il«Terzo libro» e altre cose, Torino, Einaudi 1968)

Ricordo, Giorgio Caproni

Ricordo una chiesa antica,
romita,
nell’ora in cui l’aria s’arancia
e si scheggia ogni voce
sotto l’arcata del cielo.

Eri stanca,
e ci sedemmo sopra un gradino
come due mendicanti.

Invece il sangue ferveva
di meraviglia, a vedere
ogni uccello mutarsi in stella
nel cielo.

(da Come un’allegoria (1932-1935), in Giorgio Caproni, L’opera in versi)

Per lei, Giorgio Caproni

Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate,
ma aperte: ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era cosí schietta)
conservino l’eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.

(da Il seme del piangere, Milano, Garzanti, 1959)

Perché restare, Giorgio Caproni

Chi sia stato il primo, non
è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.
Poi, uno dopo l’altro, tutti han preso la stessa via.
Ora non c’è più nessuno.
La mia
casa è la sola
abitata.
Son vecchio
Che cosa mi trattengo a fare,
quassù, dove tra breve forse
nemmeno ci sarò più io
a farmi compagnia?
Meglio – lo so – è ch’io bada
prima che me ne vada anch’io.
Eppure, non mi risolvo. Resto.
Mi lega l’erba. Il bosco.
Il fiume. Anche se il fiume è appena
un rumore ed un fresco
dietro le foglie.
La sera
siedo su questo sasso, e aspetto.
Aspetto non so che cosa, ma aspetto.
Il sonno. La morte direi, se anch’essa
da un pezzo – già non se ne fosse andata
da questi luoghi.
Aspetto
e ascolto.
(L’acqua,
da quanti milioni d’anni, l’acqua,
ha questo suo stesso suono
sulle sue pietre?)
Mi sento
perso nel tempo.
Fuori
del tempo, forse.
Ma sono
con me stesso. Non voglio
lasciare me stesso uscire
da me stesso come,
dal sotterraneo
il grillotalpa in cerca
d’altro buio.
Il trifoglio
della città è troppo
fitto. Io son già cieco.
Ma qui vedo. Parlo.
Qui dialogo. Io
qui mi rispondo e ho il mio
interlocutore. Non voglio
murarlo nel silenzio sordo
d’un frastuono senz’ombra
d’anima. Di parole
senza più anima.

Foglie, Giorgio Caproni

Quanti se ne sono andati…
Quanti.
Che cosa resta.
Nemmeno
il soffio.
Nemmeno
il graffio di rancore o il morso
della presenza.
Tutti
se ne sono andati senza
lasciare traccia.
Come
non lascia traccia il vento
sul marmo dove passa.
Come
non lascia orma l’ombra
sul marciapiede.
Tutti
scomparsi in un polverio
confusi d’occhi.
Un brusio
di voci afone, quasi
di foglie controfiato
dietro i vetri.
Foglie
che solo il cuore vede
e cui la mente non crede.

L’occasione, Giorgio Caproni

L’occasione era bella.
Volli sperare anch’io.
Puntai in alto. Una stella
o l’occhio (il gelo) di Dio?

(da Il franco cacciatore, 1982)

Biglietto lasciato prima di non andar via, Giorgio Caproni

Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito.
Il mio viaggiare
È stato tutto un restare
qua, dove non fui mai.

(da Il franco cacciatore, Garzanti, 1982)

Saggia apostrofe a tutti i caccianti, Giorgio Caproni

Fermi! Tanto
non farete mai centro.
La Bestia che cercate voi,
voi ci siete dentro

(da Il conte di Kevenhüller, Milano, Garzanti, 1986)

 

 

 

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