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Perché si commette l’errore ortografico di confondere “Cera” con “C’era”

Il docente e scrittore Massimo Roscia, in occasione della Settimana della lingua italiana nel mondo, ci concede microlezioni tratte dal suo libro. Ecco la prima lezione

MILANO – Da oggi fino al 22 ottobre si tiene la “Settimana della lingua italiana nel mondo“, curata dal Ministero degli Affari Esteri, dall’Accademia della Crusca e, all’estero, dagli Istituti Italiani di Cultura, dai Consolati italiani, dalle cattedre di Italianistica attive presso le varie Università, dai Comitati della Società Dante Alighieri e da altre Associazioni di italiani all’estero. Per l’occasione, abbiamo chiesto al docente e scrittore Massimo Roscia, autore del libro “Di grammatica non si muore” (Sperling & Kupfer), di darci in pillole alcune microlezioni tratte dal suo libro e legate ad alcuni degli errori linguistici più comuni. Oggi iniziamo parlando dell’errore ortografico nel confondere “Cera” con “C’era“.

 

C’ERA O CERA?

Cera una volta un ape assai pigra, di nome Virgoletta, che fu cacciata dall’alveare perché, invece di raccogliere diligentemente il polline dai fiori, trascorreva intere giornate al bar dei fuchi ad ascoltare l’ultimo album di Antonio Stash Fiordispino and The Kolors, a giocare a freccette con il pungiglione, a fumare steli di margherita lasciati essiccare al sole e a bere whisky torbato, distillato clandestinamente, in compagnia di un amica.

Miei cari, la cera con cui inizia questa fiaba bislacca, sgrammaticata, diseducativa ed elettropop non è certamente quella secreta dalla pigra Virgoletta e utilizzata dalle api per costruire le celle dei loro favi o dall’uomo per fabbricare candele, lubrificare cassetti e lucidare pavimenti. La cera – e non vi azzardate a invocare l’alibi del T9 o del correttore ortografico – è un mostriciattolo purulento nato da un vostro gravissimo errore ortografico. C’era si scrive con l’apostrofo, quel segno rappresentato graficamente da una virgoletta – ancora lei! – che galleggia nell’aria ed è usato di norma per segnalare la caduta di una o più lettere di una parola. L’apostrofo, come dicevano alcune vecchie maestre, è la lacrima lasciata in dono dalla vocale perduta. È un segno minuscolo, trascurabile e apparentemente inoffensivo, ma che, se omesso o maltrattato, diventa più letale del veleno di una vipera squamata. C’era sta per ci era, dove la i di ci (avverbio di luogo) viene elisa – non iniziate a canticchiare “L’anima vola”; elisa è con la e minuscola – e al suo posto compare, appunto, l’apostrofo.

 

Massimo Roscia tornerà in libreria il prossimo marzo con il suo nuovo libro (edito ancora una volta da Sperling & Kupfer). Il titolo? “È ancora segretissimo”.

 

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