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Enrico Brizzi, “Negli anni Ottanta i ragazzi condividevano di più”

Dopo una quindicina di romanzi, lo scrittore di "Jack Frusciante è uscito dal gruppo" torna a raccontare storie di adolescenti degli anni ’80 nel libro "Tu che sei di me la miglior parte"

MILANO – “Se i ragazzi di oggi avessero la fortuna di trascorrere più tempo in libertà, si troverebbero anch’essi spinti all’autonomia in età giovane, e credo sarebbe per loro un bel regalo.” Parola di Enrico Brizzi, scrittore rivelazione nel lontano 1994 con “Jack Frusciante è uscito dal gruppo“, e che, dopo una quindicina di romanzi e racconti torna a raccontare storie di adolescenti degli anni ’80 con il libro “Tu che sei di me la miglior parte“. Di seguito l’intervista all’autore.

 

Come nasce la stesura del tuo ultimo libro “Tu che sei di me la miglior parte”?

L’idea iniziale dietro al romanzo è quella di riprendere in mano – mi si passi la metafora – la mia prima chitarra, quella sulla quale ho iniziato a suonare.
Dopo l’inatteso successo di “Jack Frusciante” – che uscì in origine in appena 200 copie per una piccola etichetta indipendente di grande valore come l’anconitana Transeuropa – mi ritrovai in un luogo inatteso.
Succedevano cose pazzesche, alcune esaltanti e altre deprimenti, e la più angosciosa di tutte era che in tanti – editore, produttori cinematografici, amici – mi incoraggiavano a scrivere un altro… Jack Frusciante.
Mi sentivo al bivio fra diventare una celebrità e provare a diventare un narratore. E non avevo molti dubbi sul fatto che mi interessava la seconda via.
Così ho avuto per anni la repulsione per le storie adolescenziali.
Ora, semplicemente, quella stagione è abbastanza lontana – e io ho scritto un numero tale di libri – da non sentire più alcuna pressione in quel senso, e mi sono divertito a riprendere in mano il mio primo strumento, l’unico che sapessi suonare a 19 anni, e rendermi conto che mi divertivo anche a 43. Il “bildungsroman” è un genere nobile, l’adolescenza un’età delicata e meravigliosa… Così mi son detto “perché non farlo?”. Ho sempre seguito l’istinto, e l’esempio dei narratori che ammiro, tutti capaci di raccontare storie molto diverse fra loro, e così è stato anche questa volta. Evidentemente era arrivato il momento giusto.

 

Quanto c’è di autobiografico e quanto di pura fiction?

Credo che ogni romanzo sia in parte autobiografico e in parte di pura fiction, con tutte le gradazioni intermedie.
Se torno con la mente agli anni dell’adolescenza, non mi rendevo conto di quanto nel nostro sentirci vittime ci fosse una componente amorale, nella quale – lo spiega bene Burgess in “Un’arancia a orologeria” sognavamo di diventare carnefici. È stato così per me, e forse anche per tanti altri, e in anni demograficamente affollati di giovani e per molti versi selvaggi come gli ‘80 non era così difficile vivere l’una e l’altra dimensione.
Detto questo, dei tre protagonisti del romanzo non so dire se mi ritrovo più nel narratore Tommy, in Ester o in Raul.
Con Tommy ho in comune tante cose, ma per altri versi trovo mortificante il suo istinto gregario.
A Ester mi avvicinano un certo senso della giustizia e l’amore per la musica, detto questo non posso certo ritrovarmi specchiato per intero in un personaggio di ragazza bellissima e sicura di sé.
Raul, per finire, rappresenta bene l’istinto distruttivo e la voglia di imporsi che provavo con urgenza da ragazzo, ma personalmente non sono mai stato un giovane ricco e bellicosissimo come lui.

 

Cosa ha significato per te ripercorrere parte dei luoghi e dei momenti della tua adolescenza?

Da un quarto di secolo non trascorro più di una settimana consecutiva nello stesso letto, nella medesima città, in un identico contesto sociale e materiale.
Da ragazzo, invece, ho passato anni e anni a Bologna, e più precisamente nel quartiere Saragozza, fra lo stadio e la parrocchia dove prima ho seguito il catechismo e poi ho fatto lo scout.
Tornare a quegli anni significa per me soprattutto confrontarmi con una dimensione territoriale e gerarchizzata che oggi nella mia vita non esiste più. Ha significato, in altre parole, “tornare nel gruppo”. E raccontare l’unico mondo che potevo conoscere da ragazzo.

 

Pensi ci siano dei punti d’incontro con il tuo romanzo d’esordio ”Jack Frusciante è uscito dal gruppo”?

Credo di sì, inevitabilmente: sono storie di giovani, sono ambientate a Bologna, c’è lo stesso liceo e fanno persino un’apparizione cameo il vecchio Alex, Adelaide detta Aidi e il “maudit” Martino.
“Tu che sei di me la miglior parte”, però, racconta di una stagione che va dal 1982 al 1992, lo stesso anno in cui si svolge la storia di “Jack Frusciante”; a prima vista potrebbe sembrare un prequel, io preferisco considerarlo una storia che si svolge in una dimensione parallela a quella del mio romanzo d’esordio.

 

Quali sono, a tuo parere, valori ed abitudini dei ragazzi degli anni ’80 che andrebbero recuperati oggi per le attuali generazioni?

La nostra più grossa fortuna era essere in tanti. Vivevamo in una repubblica di ragazzi, non come i giovani di oggi che si muovono in una civiltà a misura di pensionati. Così dovevamo condividere tanto, e farci le nostre regole da soli assai prima rispetto agli adolescenti di oggi. Era un’intraprendenza figlia del bisogno, se vogliamo, e non parlo di bisogni materiali (a memoria d’uomo, anzi, non si ricordano anni più prosperi di quelli); se i ragazzi di oggi avessero la fortuna di trascorrere più tempo in libertà, si troverebbero anch’essi spinti all’autonomia in età giovane, e credo sarebbe per loro un bel regalo.

 

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