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“L’ussaro sul tetto”, il piacere della bellezza nella decadenza morale di una società

La nostra lettrice Serena Salerno ha recensito per voi "L'ussaro sul tetto" di Jean Giono

Il collasso di un’epoca, dove nuovi vecchi poteri governano immobili da spropositate altezze,si manifesta attraverso il putridume e la decomposizione di corpi corrotti dalla malattia, testimonianza di una società che ha preferito scendere a compromessi,dandole in cambio milioni di cadaveri, anziché salvaguardare la propria bellezza. Perché al decadimento morale necessariamente segue il decadimento fisico. Sono le scelte individuali a determinare l’andamento della salute fisica di un luogo e di una collettività. E così i bellissimi paesaggi dell’Alta Provenza francese si trasformano nel romanzo di Jean Giono, “L’Ussaro sul tetto” (1951),in luoghi infernali dove anche erbe dalle proprietà culinarie, come il timo e la santoreggia, e gli alberi di ulivi da cui deriva l’olio,ingrediente fondamentale della cucina provenzale, sono vittime di un rovesciamento del loro valore estetico: non più proiezione dell’idea di bellezza ma metastasi del male.

Luoghi che però riacquistano, a sprazzi, l’ originario splendore quando a toccarli sono le mani di Angelo Pardi che riesce, forse perché ancora incarnazione della bellezza, a ricrearla. I tetti, su cui si rifugia per sfuggire all’epidemia di colera che sta devastando Manosque, nella pesantezza della loro desolazione aggravata dal caldo asfissiante che avvolge in una spessa pellicola l’intero paesaggio, manifestano sempre, al passaggio dell’ussaro, un tentativo ad esser belli. Angelo Pardi, giovane aristocratico piemontese che ha aderito ai moti carbonari del 1832, rappresenta colui che non si è lasciato corrompere dai mali che attanagliano la società contemporanea.

La sua ribellione si manifesta prima di tutto nella fisicità, forte e vigorosa, che da subito si contrappone alla mancanza di vita che lo circonda. E poi nel bisogno d’ordine, la pignoleria e il senso del dovere lo rendono a tratti quasi noioso. Angelo non è mai impreparato, mentre il morbo imperversa, paralizzando oltre che per i danni soprattutto per la paura di esserne contagiati, non si lascia intimorire, fugge sui tetti, si procura del cibo evitando sempre di bere acqua, viaggia nelle foreste della Provenza da solo, cura i malati terminali, accettando di buon grado i fetidi e mostruosi rigurgiti della malattia, senza mai avere un attimo di sconforto. Angelo è un tenero ed ingenuo ragazzo di 25 anni pieno di ideali, in nome dei quali combatte e agisce sempre. Scorterà e assisterà Pauline de Théus, sua compagna di viaggio per buona parte del romanzo, fino al castello di famiglia curandola e salvandola dal colera. Fin qui nulla di nuovo, si tratta dell’elenco delle gesta di un eroe da cappa e spade, romantico, un gentleman, un cavaliere che non dimentica mai il suo dovere sebbene questo contrasti con i suoi desideri: un vero e proprio principe azzurro sempre pronto a sguainare la spada. Ciò che invece rende Angelo vulnerabile, degradando la sua immagine di eroe, sono i flussi di pensiero in cui il giovane s’interroga sulle sue azioni, rivelandone le insicurezze.

Il giovane uomo, in occasione dell’incontro con la suora che aiuterà nella raccolta e pulizia dei cadaveri a Manosque, s’interrogherà se la loro abnegazione è disinteressata o il frutto dell’esigenza di piacere a se stessi, giungendo alla conclusione che in ogni gesto di dedizione all’altro c’è sempre la volontà di essere orgogliosi di sé. La bellezza di Angelo non risiede tanto nella propensione ad assistere il prossimo,che lo rende un eroe ordinario, quanto piuttosto nella salvaguardia della sua persona non solo dal contagio del male ma dall’egoismo, al fine di procurare ai suoi occhi un’immagine di sé stesso che sia bella;un fine dai connotati individualistici perché non è il prossimo la vera preoccupazione di Angelo ma se stesso e la cura della sua estetica interiore ed esteriore. Gli altri sono solo il mezzo attraverso cui raggiungere questo ideale di bellezza che si oppone all’orrore dell’intero romanzo, risultato della non aspirazione ad essa con la conseguente perdita del piacere che si trarrebbe dalla sua contemplazione. La bellezza è per Angelo Pardi il fine ultimo, la causa suprema del suo essere, il confine che lo separa dal nulla che attraversa senza mai pervaderlo.

Serena Salerno 

4 ottobre 2015

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