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Antonio Calabrò, “Le aziende italiane devono essere i mecenati del nostro patrimonio artistico”

Il vicepresidente di Assolombarda nel libro "L'impresa riformista" spiega come aziende e mondo culturale debbano dialogare di più per promuovere il “Made in Italy"

MILANO – Ricostruire una più profonda legittimazione sociale, rendendo le imprese attori sensibili di una migliore qualità dello sviluppo. E’ questo il concetto di “impresa riformista” secondo Antonio Calabrò. Il vicepresidente di Assolombarda ha approfondito questo ed altri concetti legati all’economia “giusta e circolare” nel libro “L’impresa riformista“.

In che modo le imprese oggi non devono essere viste solo come “macchine che generano profitto”?

Le imprese, proprio per generare profitti e dunque continuare a investire, fare ricerca, innovare, creare lavoro e contribuire al benessere generale, devono saper pensare in termini di sostenibilità ambientale e sociale. Ricostruire una più profonda legittimazione sociale. Ed essere attori sensibili di una migliore qualità dello sviluppo. L’economia “giusta” e “circolare” è l’orizzonte di riferimento. E “l’impresa riformista” di cui parlo nel mio libro è quella capace di essere lievito di una positiva trasformazione sociale. Un’impresa capace di conciliare i propri  obiettivi economici, i propri interessi, con gli interessi generali della comunità.

Quali sono i punti di forza di un’impresa oggi?

La capacità di innovazione. La cura per la scienza e le nuove tecnologie. Lo sguardo lungo sulla competitività internazionale. La responsabilità verso i territori su cui insistono le fabbriche, l’inclusione sociale, una profonda cultura del merito, del premio alle competenze, della valorizzazione delle conoscenze. L’obiettivo: la “fabbrica bella” e cioè ben progettata, luminosa, sicura, accogliente e inclusiva, con basso impatto ambientale grazie anche alla scelta delle energie rinnovabili. Un esempio? Lo stabilimento Pirelli di Settimo Torinese progettato da Renzo Piano: industria hi tech in un giardino di ciliegi. Ce ne sono tante, in Italia, di fabbriche così. Il libro le racconta con grande evidenza.

Quale contributo posso dare oggi le imprese per la diffusione della cultura e la tutela del patrimonio artistico?

Possono avere un impegno da mecenati, investendo risorse per il restauro, la tutela e la valorizzazione di parti del nostro patrimonio artistico e culturale oppure, anche, finanziare associazioni che se ne occupano, come il Touring Club o il Fai. Ma possono fare di meglio e di più: considerare la bellezza come fattore essenziale della competitività aziendale e orientare la propria cultura d’impresa per un dialogo stretto, attivo, tra la creatività artistica e la qualità caratteristica del miglior “Made in Italy”, il cosiddetto “bello e ben fatto”, i prodotti e i servizi di alta gamma, in cui l’estetica si coniuga con la funzionalità, come indica peraltro la storia migliore del design italiano. E fare entrare in fabbrica, come negli anni Cinquanta, scrittori e pittori, scultori e fotografi, registi di cinema e teatro, musicisti e artisti delle più innovative arti visive, per costruire, insieme agli uomini e alle dome d’impresa, un nuovo racconto dell’industria come luogo speciale in cui l’innovazione si lega alla produttività, la sostenibilità ambientale all’inclusione e alla solidarietà sociale. Riecco, anche da questo punto di vista, i temi chiave de “L’impresa riformista”.

All’interno di questa visione di “impresa riformista”, che ruolo e spazio devono avere i giovani?

Tutto lo spazio necessario a fare vivere e crescere le energie di generazioni che puntano sulle conoscenze umanistiche e scientifiche legate in modo nuovo e originale, sulla passione per l’innovazione tecnologica e sociale, sull’attenzione per le trasformazioni del lavoro e del consumo. L’impresa ha bisogno di sguardi che capiscano il cambiamento e lo traducano in prodotti e servizi, che rafforzano l’economia e migliorano la qualità della vita. Il buon “riformismo dell’impresa” sostenibile.

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