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Essere insegnanti oggi significa combattere contro i genitori?

Cosa significa essere insegnanti oggi? Michele Canalini lo racconta con ironia e lucidità nel suo libro "L'insegnante di terracotta"

MILANO – Essere insegnanti oggi non è facile. Non lo è mai stato, per la verità, ma di questi tempi il compito è reso ancora più arduo da una serie di difficoltà sociali e istituzionali. Tra mamme coalizzate in temibili gruppi Whatsapp, genitori che difendono i figli a spada tratta minando l’autorità dei docenti, strutture fatiscenti, stipendi inadeguati e un sistema di abilitazione che è diventato un vero e proprio calvario, è facile perdere di vista il cruciale valore educativo della professione di insegnante.

INSEGNANTE DI TERRACOTTA

Michele Canalini, laureato in Lettere nel 2014, insegna italiano in un istituto professionale in provincia di Massa-Carrara, e ne L’insegnante di terracotta (Mimesis) prova a raccontare cosa significa essere insegnanti oggi, quali sono i problemi che bisogna affrontare e perché – nonostante tutto – vale la pena intraprendere questo percorso professionale. Lo abbiamo intervistato per saperne di più.

Essere insegnanti per molti è un ripiego, un lavoro di serie B, non una professione a cui aspirare – scrivi nell’introduzione a L’insegnante di terracotta. Come mai è così secondo te?

Nella mia esperienza ho visto diversi colleghi che hanno “ripiegato” sull’insegnamento dopo che non sono riusciti a raggiungere differenti traguardi professionali che si erano prefissati. Ma c’è anche un altro punto, non meno importante, che rovescia la prospettiva: oggi non c’è una vera e propria “corsa” al ruolo di docente, nonostante ci siano tanti supplenti e siano migliaia coloro che provano i concorsi, perché la prospettiva della retribuzione media di un insegnante non attira in termini di gratificazione economica e, a seguire, di ambizione. A questo, si aggiunge la lunga gavetta, anche in termini contrattuali e giuridici, degli insegnanti: tanti, tantissimi precari, con contratti a tempo determinato più o meno lunghi, che però costituiscono, secondo me, la parte più consistente del corpo docente in Italia. E senza i quali sarebbe impossibile – ripeto, impossibile – fare scuola oggi.

E cosa occorre invece per essere insegnanti all’altezza del difficile compito educativo?

Per essere insegnanti bisogna anzitutto studiare tanto. Lapalissiano e non scontato. Poi è necessario acquisire un minimo di competenze di pedagogia e di psicologia. Poi l’abilitazione e tutto il resto. Per quanto mi riguarda, io ho frequentato la SSIS, cioè la Scuola di Specializzazione all’Insegnamento Secondario: due anni post lauream di ulteriore studio, di specializzazione disciplinare e soprattutto di tirocinio. Ricordo ancora la scuola del tirocinio: il liceo scientifico “Einstein” di Rimini con il professor Luciano Lagazzi che mi ha fatto da tutor. Un bel tipo, affabile e preparato, e anche un po’ eclettico. Una volta mi accolse alla prima campanella, dicendomi che era lì da qualche ora perché era arrivato la mattina presto per suonare il pianoforte della scuola… tutti gli insegnanti sono stravaganti! Tuttavia, ho imparato tanto dalla SSIS e soprattutto da quest’ultima esperienza a Rimini: come gestire le dinamiche della classe e le relazioni umane, come cambiare modo di fare lezione, anche improvvisamente se ti rendi conto che gli studenti non ti seguono, e altro ancora. Davvero un bel ricordo. E utile e formativo. Secondo me, le SSIS erano davvero valide, anche perché venivano scelte – pur con un esborso da parte degli iscritti – solo da coloro che volevano “davvero” fare l’insegnante. Una prima forma di scrematura motivazionale.

Una delle grandi difficoltà per un insegnante, scrivi, è avere a che fare con “l’analfabetismo emotivo” dei ragazzi di oggi. Puoi spiegarci che cosa significa, magari con qualche esempio?

Di “analfabetismo emotivo” ti rendi conto, a scuola, quando capisci che gli studenti non sanno gestire le emozioni o, per essere più chiari, non sanno quando provare l’emozione giusta e in quali termini. Può essere il caso di ragazzi con troppa rabbia o quello di ragazzi sempre all’apparenza inerti, con una maschera addosso quasi di atarassia; oppure può essere il caso di ragazzi che non sanno quando provare un reale sentimento di compassione, di fronte a tragedie vere, o, in caso contrario, di eccessiva partecipazione per circostanze che devono essere analizzate invece con il giusto distacco. Un esempio – di cui parlo nel libro – è stato il momento in cui ho chiesto ai miei allievi di riscrivere il testo di “Bocca di rosa” di André: per alcuni è stato impensabile, se non addirittura ai limiti della legalità, raccontare la vicenda di una “prostituta o donna libera”, considerando ciò un argomento scabroso e tabù. In questo, come in tanti altri casi, l’insegnante dev’essere una guida e un aiuto non per semplificare la realtà ma per capirla attraverso tutte le sue sfaccettature, attraverso l’uso di categorie in grado di decifrare quella complessità che caratterizza oggi il nostro vivere quotidiano.

Cosa ti appassiona di più del mestiere di insegnante?

La possibilità di essere ogni mattina davanti a ragazzi che ti aspettano e aspettano da te non solo una lezione. Ma anche la tua umanità e il tuo modo di essere, nei confronti di loro, degli altri e del mondo. Non dimentico mai di essere un educatore, prima ancora di un docente di Lettere (le mie discipline). E questo serve anche a me stesso, come stimolo e come ambizione.

L’incubo delle chat di whatsapp delle mamme, ingerenze continue dei genitori nei confronti degli insegnanti. Come mai succede?

Forse questo è il grande problema della scuola odierna. Un’ingerenza, non generalizzata, ma sempre più diffusa, di chi vuole dire ai docenti come si fa scuola. È vero, ci possono essere anche insegnanti non irreprensibili ma la gran parte del corpo docente è sano. E valido. Ma il problema resta. Resta perché oggi tutti sanno fare tutto, non esistono più le competenze – e le conoscenze! – di chi ha studiato tanto nel corso della propria vita, dato che ognuno vuol dire la sua e vuol dimostrare di saper fare le cose, a modo suo. E questo, purtroppo, non vale solo per il mondo dell’istruzione, ma anche per tanti altri campi: con le conseguenze, purtroppo, che conosciamo ogni giorno e di cui ci raccontano gli organi di stampa. A ciò si aggiunge lo “spauracchio” delle chat, dove si possono leggere anche riflessioni e commenti che, probabilmente di persona, nessuno oserebbe mai pronunciare. Anche solo per una questione di decoro. I “leoni da tastiera” esistono anche in questo campo. Chiaramente non tutte le chat sono così, perché alcune, soprattutto quelle degli insegnanti, possono rivelarsi utili da un punto di vista logistico. Tuttavia, se possibile, meglio restarne fuori.

Come si può ripristinare un “patto educativo” organico tra insegnanti e genitori?

Secondo me, più che un patto educativo tra insegnanti e genitori, oggi si dovrebbe stipulare un nuovo patto tra istituzioni in generale, cittadini e persone. E in questo patto ci dev’essere, ora più che mai, cultura. Tanta cultura. Investimenti massicci nella cultura. E, mi permetto di aggiungere, anche tanta storia.

Cosa pensi invece della formazione degli insegnanti? Quali riforme occorrono per far sì che gli insegnanti siano preparati al loro lavoro, e continuino a formarsi nel corso degli anni?

Oltre alla SSIS di cui ho parlato prima, credo che una qualsivoglia forma di “tirocinio” per gli aspiranti docenti sia quanto mai necessaria, previa però una verifica rigorosa delle conoscenze di base e disciplinari. Poi, servirebbe una maggiore diffusione di opportunità culturali, per insegnanti e non solo: più cinema, più biblioteche, più teatro, più incontri e dibattiti, secondo me molto più utili di tanti corsi di aggiornamento. Alla fine, comunque, quello che fa la differenza è l’esperienza, unita a un’irrinunciabile dose di professionalità, serietà e correttezza: un ragazzo in classe, che lo dia a vedere o meno, introietta sempre il messaggio che, direttamente o indirettamente, gli giunge dal docente. Il che non significa, nell’esercizio del mestiere, non scherzare mai o essere troppo distaccati: ci vuole la giusta misura, quella che si impara con tanti anni di insegnamento. Come in tutte le cose, del resto. Un’ultima considerazione, in conclusione: a scuola ci si può e ci si deve confrontare con il fallimento. Il fallimento di una lezione, il fallimento di un progetto, il fallimento di un dialogo educativo con uno studente, con un collega, con il dirigente. L’insegnante è pur sempre una persona, è non è infallibile, anzi. A raccontarne, di fallimenti…

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