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Rosella Pastorino, “Nel mio libro indago la fragilità dell’esistenza dentro la Shoah”

La vincitrice del Premio Campiello 2018 è autrice di un romanzo che racconta la storia di Rossa Sauer, una delle assaggiatrici di Hitler

MILANO – Chi erano le assaggiatrici di Hitler? Donne che avevano il compito di assicurarsi che il cibo del dittatore non fosse avvelenato. A rispondere è Rossella Pastorino nel libro “Le assaggiatrici“, vincitrice del Premio Campiello 2018. Un romanzo che si basa sulla storia, realmente accaduta, di Margot Wölk, una delle assaggiatrici di Hitler. Una storia avvincente che mette in scena la fragilità di una donna e coinvolge i lettori con un’importante domanda: cosa ci rende veramente umani.

 

 Come è nata l’idea di raccontare la storia di Rosa Sauer?

Nel settembre del 2014 mi sono imbattuta in un piccolo articolo, pubblicato su un giornale nazionale, che parlava di Margot Wölk, una signora novantaseienne di Berlino, che per la prima volta confessava di essere stata in gioventù un’assaggiatrice di Hitler.

Al di là della scoperta (fino a quel momento ignoravo che Hitler disponesse di un gruppo di assaggiatrici), ciò che mi ha colpito è che questa donna parlava della mensa forzata come di un incubo – assaggiava i pasti per accertarsi che non fossero avvelenati – e contemporaneamente non poteva fare a meno di ricordare quanto fossero gustosi. Il suo privilegio, essere pagata per mangiare mentre la popolazione moriva di fame, era pure la sua condanna. Dentro questa contraddizione c’era una storia, e una storia che mi riguardava. Perché ogni tentativo di sopravvivenza è sempre anche un rischio mortale. Soprattutto, la colpa di questa donna, che si era trovata a lavorare per il Führer senza averlo scelto, in modo casuale e coercitivo, era per me più interessante della colpa di coloro che erano stati dalla parte del torto perché spinti invece da un’ideologia. C’era l’ambiguità della zona grigia, la traiettoria improvvisa che può prendere il destino di una persona qualunque durante la guerra e sotto un regime totalitario. In quanto persona qualunque, lei chiamava in causa tutti noi. Quantomeno, chiamava in causa me. Ecco perché, ispirandomi alla sua vicenda, ho scritto la storia di Rosa Sauer.

 

 Che messaggio pensi che possa lasciare Rosa, la protagonista del tuo romanzo?

Non credo che un romanzo debba lasciare  un messaggio, io almeno non pretendo di darne. Mi pongo delle domande e attraverso la narrazione le pongo al lettore, ma non mi aspetto nemmeno che i suoi interrogativi corrispondano necessariamente ai miei: ogni lettore ricava da un testo riflessioni diverse, ed è anche questa la bellezza della letteratura.

Ciò su cui riflette Rosa, e io con lei, è la fragilità dell’esistenza, la complessità delle relazioni umane, il confine sottile tra la colpa e l’innocenza – temi che riguardano l’esistenza di ogni essere umano in ogni periodo storico. Più specificamente, Rosa ha una colpa politica: sebbene non abbia mai votato il Partito Nazionalsocialista, perché non aveva l’età per farlo, ha comunque tollerato un regime oppressivo e soprattutto disumano, criminale. Ed è sopravvissuta dentro quel sistema proprio perché vi si è adattata meglio, di fronte al sacrificio che invece ha coinvolto altri: questa, direbbe Jaspers, è una colpa metafisica. La sua è la colpa del superstite, e del colluso, ma d’altra parte sopravvivere è un istinto umano cui è innaturale sottrarsi.

 

 Il nucleo centrale del tuo libro è il tentativo di capire che cosa ci renda umani. Tu come risponderesti a questa domanda?

Credo che ci renda umani desiderare, perché desiderare è una rivendicazione di esistenza. Non parlo solo del desiderio amoroso, naturalmente, parlo della possibilità di progettare, di sperare, di credere in un futuro. Ci rende umani conservare la nostra dignità e salvaguardare la dignità degli altri. Restare inerti di fronte alle tragedie che toccano altri – per esempio di fronte ai profughi, ai migranti, ai morti annegati nel Mediterraneo – ci toglie umanità, ed è una colpa.

Ma è umana anche la nostra caducità, la nostra debolezza, sono umani i limiti del nostro corpo. C’è una costante pietas, nel romanzo, verso la miseria dei nostri corpi, progettati per disfarsi e, prima o poi, spegnersi.

 

 Il tuo romanzo è ispirato a una delle vere assaggiatrici di Hitler, Margot Wölk. Se fosse ancora in vita cosa le chiederesti?

Ah, se fossi riuscita a incontrarla come mi proponevo – purtroppo ho scoperto che era appena morta proprio quando, dopo mesi di ricerche, l’avevo trovata – mi sarei fatta raccontare ogni dettaglio della sua esperienza di assaggiatrice, anche il più marginale. È una curiosità che purtroppo non sarà mai soddisfatta.

Soprattutto, avrei voluto sapere da lei come si vive con questa colpa: aver lavorato per colui che rappresenta il Male assoluto, aver approfittato di una condizione di privilegio, e contemporaneamente aver rischiato di morire tre volte al giorno per mesi e mesi, semplicemente compiendo il gesto innocuo e indispensabile di mangiare. Margot aveva mantenuto il segreto su quell’esperienza. Ecco, le avrei chiesto come si vive con un simile segreto, e se il terrore di quella mensa le ritornasse in mente a ogni pasto, o se provava persino una dolcezza paradossale nel ricordare chi, negli anni della guerra, era accanto a lei, e con lei cercava di scampare quotidianamente alla morte: la nostalgia di un tempo in cui eravamo inermi, eppure, nonostante tutto, siamo riusciti a salvarci.

 

Come pensi che la storia raccontata nel tuo libro possa aiutare a non dimenticare quello che è successo?

Intanto perché ritorna a quel periodo storico, che per fortuna non è dimenticato né dalla letteratura né dal cinema, anche se quello che accade politicamente a livello europeo e mondiale sembra suggerire che la memoria storica non riesce a tutelarci davvero dall’orrore razzista, xenofobo, populista, sessista, omofobo e guerrafondaio che il Nazismo rappresentava, dalla totale assenza di valore che attribuiva alla singola vita umana.

Inoltre perché, raccontando il modo in cui, senza essere ideologicamente fanatici, si può diventare complici, ci mette in guardia da ogni forma di acquiescenza.

Infine perché ci ricorda che anche i Nazisti, anche Hitler, erano esseri umani. Disumanizzarli è un errore: non appartengono a un’altra specie, ma esattamente alla nostra. Ricordarlo è un’assunzione di responsabilità.

 

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