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Vita e morte dell’allenatore ebreo Arpàd Weisz nel romanzo di Matteo Maraini ‘Dallo scudetto ad Auschwitz”

Arpàd Weisz. Benché una targa allo stadio Meazza di Milano e al Dall'Ara di Bologna lo ricordi, è difficile che alla maggioranza dei cronisti e tifosi del calcio questo nome dica qualcosa. La brillante vicenda professionale e la tragedia umana di Weisz...

Pubblichiamo la recensione di Mimmo Mastrangelo perché con l’accurata lettura del libro di Marani ha contribuito a ripristinare il ricordo di Arpàd Weisz, l’allenatore ebreo che portò alla gloria l’Internazionale

Arpàd Weisz. Benché una targa allo stadio Meazza di Milano e al Dall’Ara di Bologna lo ricordi, è difficile che alla maggioranza dei cronisti e tifosi del calcio questo nome dica qualcosa. La brillante vicenda professionale e la tragedia umana di Weisz rimangono ancora oggi un cono d’ombra nella storia del grande calcio italiano ed internazionale. Nato da una famiglia ebrea nel 1896 a Solf – oggi un paese di poco più di settemila anime ad una settantina di chilometri da Budapest – Weisz  arrivò in Italia nella stagione 1924-25 portandosi dal suo paese anche una laurea in giurisprudenza e un sentire socialista. Lo acquistò dal Makkabi Brno il Padova che disputava allora il campionato di prima divisione (l’attuale massima serie), poi passò alla Juventus e, quindi, all’Inter dove riuscì a giocare solo una decina di partite in quanto un grave incidente gli stroncò definitivamente la carriera. Wiesz era un attaccante di fascia (un’ala sinistra come si diceva un tempo), molto mobile e con buone doti tecniche. In maglia nerazzurra mise a segno tre gol realizzati tutti in una sola settimana. Appese forzatamente le scarpette al chiodo, Weisz – racconta Matteo Marani nel libro “Dallo scudetto ad Auschwitz. Vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo” (Aliberti Editore) – intraprese una carriera di allenatore che sarà ricca di soddisfazioni.

La prima esperienza fu ad Alessandria dove lavorò nello staff tecnico diretto da un maestro come Augusto Rangone, già trainer della nazionale agli inizi degli anni venti. A Milano fece ritorno nel 1926, ma solo l’anno successivo gli venne affidata la guida dell’Internazionale, che nel frattempo  era diventata Ambrosiana. Per ragioni (stupide) di regime, anche il nome Weisz diventò Veisz, ma più per la W tolta al cognome, l’ungherese si distinse per altre e ben valide motivazioni. Mentre tutti i suoi colleghi lavoravano in giacca e cravatta, Weisz fu il primo tecnico in Italia a presiedere gli allenamenti in pantaloncini e maglietta; scrisse insieme ad un dirigente dell’Inter il manuale “Il giuoco del calcio”, che ebbe un buon successo di vendite e vantava la prefazione del grande Vittorio Pozzo. Fu, inoltre,  un nome di punta di quella famosa “scuola danubiana” di allenatori che esportò fuori dai confini nazionali un metodo impostato su precisi ed efficaci passaggi rasoterra. Con l’Ambrosiana vinse lo scudetto nella stagione 1929-30, primato conquistato anche grazie al fuoriclasse Peppino Meazza che, scovato dalle giovanili nerazzurre dallo stesso trainer ungherese, segnò la bellezza di trentuno gol. Nel campionato successivo l’Ambrosiana finì al quinto posto, un piazzamento deludente per la società al punto che i dirigenti non intesero rinnovare il contratto all’allenatore a cui non restò altra scelta che prendere il treno verso la lontana Bari. Dalla Puglia (ri)approdò di nuovo all’Ambrosiana con cui conquistò due prestigiosi secondi posti dietro una Juventus dei miracoli. Weisz lasciò definitivamente i nerazzurri  alla fine della stagione 1933-34 con un tabellino marcato da 212 presenze sulla panchina (lo supereranno solo Herrera, Trapattoni e Mancini). Passò a guidare il Novara e nel 1935 fu chiamato a sostituire a Bologna il connazionale Laojos Kovacs. Nel capoluogo emiliano Weisz trovò una  squadra in crisi e a corto di risultati. Ma il mestiere e la larga conoscenza acquisita sul calcio italiano gli permisero  di risanare i guai della società rossoblu,  conquistare lo scudetto e spezzare il dominio della Juventus della famiglia Agnelli. Il Bologna l’anno dopo (campionato 1936-37) conquistò ancora il tricolore e a Parigi il 6 giugno del 1937 vinse anche il Trofeo dell’Esposizione (una sorta di Coppa Campioni ante-litteram), battendo gli inglesi del Chelsea per 4-1.

E mentre Weisz e il Bologna “che tremare il mondo fa” incameravano successi su successi, gli eventi della grande storia andavano precipitando. Hitler era inarrestabile nel portare avanti quel suo folle progetto di grande Germania e in Italia il regime mussoliniano aveva azzerato ogni opposizione politica e promulgato le leggi razziali. Il 16 ottobre del 1938 Weisz diresse l’ultima volta sulla panchina il Bologna battendo in casa la Lazio per 2-0. Due mesi dopo con la famiglia era già a Parigi dove provò ad accasarsi in qualche società, ma l’ingaggio arrivò dal club olandese del Dordrecht che l’ungherese riuscì a salvare dalla retrocessione. In Olanda la persecuzione dei nazisti sugli ebrei  non era da meno e così anche i Wiesz  dovettero cucire la stella gialla d’identificazione sui vestiti. Secondo i documenti ritrovati da Matteo Marani, Arpad e i suoi cari vennero arrestati dalla gestapo a Dordrecht agli inizi dell’agosto del 1942 e nell’ottobre  furono deportati a Auschwitz. La moglie Clara di trentaquattro anni e i figlioletti Roberto ed Elena, rispettivamente di dodici e otto anni, solo pochi giorni dopo il loro arrivo nel lager vennero  avviati alla camera a gas, mentre la morte dell’ex-trainer delle scudettate Inter e Bologna porta la data del 31 gennaio 1944. Arpàd Wiesz  si spense che aveva solo quarantasei anni al di là del filo spinato del più macabro orrore prodotto dall’uomo nel Novecento.

9 novembre 2012  

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